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Tempi duri in Iran

Per ora, le armi tacciono, ma il risultato di quest’ennesimo combattimento tra Israele e Palestina lascia inevitabili conseguenze, tra le quali l’ulteriore isolamento di Israele e la devastazione, morale e fisica, di Gaza.

Ma se, come è stato da più fonti ipotizzato, da parte di Israele quest’operazione è stata una sorta di avvertimento nei confronti dell’Iran non ci resta che temere il peggio. Anche se, paradossalmente, nella Repubblica Islamica d’Iran si respira un’aria quasi di vittoria: dopo mesi di accuse per l’appoggio fornito da Tehran al sanguinario alleato Assad, che brutalmente uccide i suoi cittadini a migliaia, l’Iran può di nuovo comparire sulla scena mediorientale come il difensore di musulmani innocenti, ovvero dei palestinesi. Ecco perché le autorità militari iraniane si sono affrettate a confermare che i missili in dotazione a Hamas sono stati fabbricati grazie al know how da loro fornito; mentre il portavoce del parlamento, Ali Larijani, ha dichiarato che il suo Paese è fiero di aiutare i palestinesi, lasciati soli dalle nazioni arabe.

Queste esternazioni iraniane appaiono, però, autolesioniste se affiancate a tutti i messaggi che personalità di spicco dell’establishment di Tehran stanno lanciando nei confronti degli Stati Uniti, soprattutto dopo la conferma di Obama alla presidenza: dall’attuale Presidente Ahmadinejad al suo predecessore Rafsanjani, dal capo della commissione per la sicurezza nazionale allo stesso Larijani, tutti hanno rilasciato dichiarazioni sulla necessità di comporre la diatriba sul nucleare ricorrendo a negoziati diretti con gli Stati Uniti.

Nonostante la sicurezza ostentata dal regime iraniano sul futuro dell’economia locale, il Paese ha un disperato bisogno che le sanzioni vengano alleggerite quanto prima. Medici e associazioni umanitarie iraniani stanno da tempo cercando di attirare l’attenzione sugli scaffali vuoti di farmacie e ambulatori nell’intero Paese, da dove ormai mancano pure i farmaci “salva vita” di fabbricazione estera, mettendo in pericolo più di sei milioni di cittadini. Il mese scorso, tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Europea hanno dichiarato di aver depennato molti farmaci dalla lista dei beni non commerciabili con l’Iran, ma c’è un altro problema: la paurosa inflazione di cui l’Iran è protagonista rende impossibile ai più l’acquisto anche di beni di prima necessità. Il calo di produzione (ed esportazione) del petrolio ha vuotato le casse dello stato, mentre la moneta locale è collassata.

Restrizioni e privazioni rendono nervose le autorità, scatenandole le une contro le altre, perlomeno a parole: il Ministro della Sanità, ad esempio, ha accusato la Banca Centrale per non aver messo a disposizione un budget adeguato per acquisire farmaci e strumenti dall’estero.

Sempre a parole, anche il Presidente Obama ha sottolineato la volontà di risolvere la situazione iraniana con la diplomazia: ma accetteranno le autorità iraniane le proposte internazionali? Sapranno mettere da parte le proprie ambizioni personali per il bene del Paese? Nell’estate 1988, allorché l’Iran fu costretto a firmare l’armistizio con l’Iraq, l’allora capo di Stato, ayatollah Khomeini, disse che quella pace era come “bere un calice di veleno”. Ora più che mai è necessario che il regime di Tehran s’adegui alla realpolitik, anche pretendendo di essere costretto a rinunciare alle proprie ambizioni per il bene del popolo, e beva il famoso calice.

 

 pubblicato da Giornale di Brescia, 24/11/2012

Noi e l’Afghanistan: è sempre scontro di civiltà?

Ieri sera, al Candiani di Mestre, si è presentato il documentario di Razi e Soheila Mohebi Afghanistan 2014 un realistico, amaro, quasi spietato ritratto di come le potenze internazionali stanno affrontando la situazione afghana.

Al termine, un interessante dibattito condotto soprattutto grazie alla bravura di Soheila Mohebi, in difficoltà solo quando alcuni spettatori le hanno chiesto quanto ci vorrà perchè l’Afghanistan diventi una nazione…. Soheila ha provato a spiegare che le categorie occidentali non funzionano ovunque, e che l’Afghanistan è la prova evidente di questa impossibilità di traslare istituzioni e concetti che magari funzionano nel contesto occidentale come fossero universali…niente da fare, in quel momento è scattata l’incomprensione tra il pubblico e la cineasta.

E’ possibile essere ancora convinti che tutto ciò che è “made in the West” possa essere esportato come fosse un paio di scarpe italiane o uno spumante francese?

Morire per Kabul

E’ morto un altro nostro connazionale sulla difficile strada che porta alla pacificazione dell’Afghanistan, il 52° soldato da quando la missione italiana affianca quella internazionale fra le montagne del Centrasia. L’alpino Tiziano Chierotti è stato ucciso al culmine dell’escalation di attacchi ai soldati della Forza Internazionale impegnata da oltre dieci anni ad estirpare i covi del terrorismo internazionale e a consentire a circa 30 milioni di afgani di poter vivere in pace. Un intervento certo necessario, ma se consideriamo che dal 2001 sono morti circa 2800 soldati della Forza Internazionale (per non parlare delle migliaia di civili afgani colpiti dal “fuoco amico” e/o dai Talebani), sono più che comprensibili le voci che da più Paesi (Italia in testa) si alzano a invocare la fine della missione.

Qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare. Ad esempio, vi è una palese conflittualità tra forze dell’ordine (polizia e esercito) addestrate dalla FI e i poliziotti/militari afghani, una conflittualità dettata dall’incomprensione spesso dimostrata dagli occidentali nei riguardi di usi e costumi locali, e che in più di una occasione ha spinto le forze afghane ad attaccare gli alleati. Solo recentemente la FI si è risolta ad addestrare i propri soldati non solo alla conoscenza del terreno afghano, ma pure nella lingua e negli usi e costumi locali, ciononostante la preparazione risulta sovente frettolosa e inadeguata. I militari della FI rischiano troppo spesso infrangere codici non scritti, divenendo vittime della loro conoscenza inadeguata e alienandosi la popolazione locale, sempre più scettica sull’utilità della presenza internazionale.

Eppure, dieci anni fa l’Afghanistan mancava di istituzioni democratiche elementari che sono state ristabilite grazie alla presenza internazionale, e ci sono molti afghani che paventano il 2014, anno in cui la FI dovrebbe ritirare le truppe: l’impegno “civile” dei Paesi ora coinvolti militarmente e garantito anche dopo il ritiro delle truppe basterà a salvare l’Afghanistan dal collasso?

In molte zone del Paese la società civile continua ad essere terrorizzata dal Taleban; scaramucce con l’esercito pakistano sono all’ordine del giorno presso i confini; la crescita economica ha subito un brusco arresto causa la siccità che ha colpito il Paese nella scorsa stagione e molti agricoltori sono soggetti al ricatto talebano che impone loro di coltivare oppio per supplire la produzione agricola (e foraggiare così gli stessi Taleban). A tutto ciò si aggiunge un altalenante conduzione del Paese, con il Presidente Karzai sempre pronto a stendere la mano verso i donatori internazionali, ma riluttante a mettere in opera le richieste riforme istituzionali finalizzate a combattere la corruzione e a garantire il rispetto dei diritti umani.

Altro problema cruciale è la cronica mancanza di coordinamento tra donatori e leadership locale, una lacuna che vanifica l’intervento dei donatori. Un esempio tra i tanti: nel 2009 Karzai ha inaugurato un ospedale modello nella capitale Kabul offerto da un costruttore cinese, ma la struttura sanitaria non ha mai aperto, perché il governo afghano non è in grado di farla funzionare.

Urge una nuova strategia della FI per uscire dall’impasse, ridando fiducia alla società civile afghana e un senso al sacrificio di tanti nostri connazionali.

da Giornale di Brescia 28/10/2012

Morsi: Ikwanizzazione dell’Egitto?

Dopo mesi, gli egiziani sono tornati in piazza, sostanzialmente per protestare contro la bozza della nuova Costituzione che sembra non tenere in debito conto i diritti delle minoranze religiose e di donne e bambini, mentre di fatto rafforza il ruolo della religione (islamica) nella politica e nella vita pubblica.

La contestazione nei riguardi della commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione non è certo scoppiata in questi giorni, in quanto da tempo gli egiziani ne lamentavano la scarsa trasparenza e il peso eccessivo dei suoi componenti “religiosi”, sproporzionatamente maggioritari rispetto agli altri. Così, le accuse alla commissione costituzionale vanno a sommarsi a quelle più generalmente rivolte al Presidente Morsi, giunto al giro di boa dei primi cento giorni al potere: e l’addebito principale contestato al Presidente è la sua volontà di ridurre l’Egitto al completo controllo dei Fratelli Musulmani, di cui Morsi è esponente ed espressione. Secondo i suoi detrattori, Morsi, privo di alcuna esperienza politica, sarebbe pilotato dalla Fratellanza alla quale sta assoggettando le principali cariche del Paese. Forte degli immensi poteri garantiti al Presidente della Repubblica dai tempi di Mubarak, Morsi ha investito delle massime cariche statali membri dei Fratelli Musulmani o, in alternativa, ha nominato personaggi che non intendono sbarrarne la strada al potere assoluto: sarebbe il caso di Al Sisi, scelto quale capo delle Forze Armate, unica istituzione in grado di rappresentare un degno contraltare ai Fratelli, un militare che non pare volersi mettere in rotta di collisione con la nuova dirigenza. Se, da un lato, l’opinione pubblica approva il ridimensionamento dell’esercito, il braccio destro della repressione del defunto regime, dall’altro non può che essere preoccupata dall’indebolimento dell’unica vera forza d’opposizione allo strapotere dei Fratelli Musulmani.

Altro elemento di forte preoccupazione per il cammino democratico del Paese è la stretta data dal nuovo governo alla stampa: dopo un incontro avvenuto la scorsa estate in cui Morsi ha annunciato all’associazione giornalisti che la loro opera verrà sottoposta al controllo della shura (l’organismo parlamentare in cui i Fratelli Musulmani detengono la maggioranza), sono cadute le speranze che il nuovo corso egiziano liberasse l’informazione dalla censura. E l’immediato oscuramento di un canale satellitare e l’accusa ad alcuni giornalisti di diffamazione nei confronti del Presidente hanno rafforzato l’idea che la censura di Mubarak si sia trasformata nella censura di Morsi.

Paradossalmente, Morsi subisce le accuse non solo da parte degli egiziani laici o che comunque non sono in accordo con la politica dei Fratelli Musulmani, ma pure quelle delle frange religiose estreme come quella salafita, che preme per una maggiore “islamizzazione” del Paese. Così, Morsi e i Fratelli sono costretti a promuoversi come un modello alternativo tanto agli uni quanto agli altri, onde sottolineare la propria peculiarità. I Fratelli minacciano la secolarizzazione dell’Egitto per differenziarsi dai “laici” dell’epoca Mubarak, ma, al contempo, in contrasto con i salafiti, debbono tener fede al loro impegno di provare come l’etica religiosa (islamica) sia compatibile coi principi della democrazia.

Il compito di Morsi e dei Fratelli è assai arduo e la transizione dell’Egitto ancora lunga e piena di insidie. 

pubblicato da Giornale di Brescia 20/10/2012

Bazar in fermento a Tehran

Gli iraniani sono di nuovo in piazza e questa volta non si tratta di studenti che protestano in nome della libertà, ma di commercianti che non sanno più come prezzare le merci, visto che la moneta nazionale, il rial, ha perduto, solo nell’ultima settimana, il 40% del suo valore contro il dollaro. La serrata del bazar di Tehran avvenuta qualche giorno fa è particolarmente grave, in quanto l’immenso dedalo di negozi d’ogni tipo che si trova nel quartiere sud della capitale non solo è il vero cuore pulsante dell’economia nazionale, ma costituisce altresì, da secoli, il barometro del rapporto tra stato e cittadini. Storicamente, i commercianti del bazar, o bazari, hanno dato il via alle proteste più cruciali compresa, per rammentare solo la più rilevante avvenuta nel vicino passato, quella che ha decretato la fine della monarchia e l’avvento della Repubblica Islamica a fine anni ’70.

Ora, fra gli slogan echeggianti nel corteo di bazari, spiccavano quelli indirizzati contro il Presidente Ahmadinejad, accusato di aver ridotto l’economia iraniana ai minimi termini: ciò potrebbe essere una buona notizia per la Guida Suprema Khamenei che mira a togliere di mezzo il Presidente della repubblica prima della scadenza del suo mandato (giugno 2013). Ma i bazari scandivano slogan anche contro l’aiuto fornito al regime siriano, aiuto fornito col beneplacito dell’intero establishment, Khamenei incluso.

La protesta del bazar è quindi una protesta che investe tutta la dirigenza, e parrebbe segnare il primo grande successo delle sanzioni che stanno strangolando l’Iran: dopo molti mesi di scontento per l’inflazione spaventosa, l’aumento insostenibile del costo della vita e la disoccupazione galoppante (ormai al 25%), la gente scende in piazza contro il regime, chiedendo, inoltre, di investire localmente le risorse ora impiegate per aiutare Assad a rimanere in sella. Ma vi potrebbe essere presto anche un altro risvolto auspicato dai governi internazionali, ovvero la necessità di scendere a compromesso sulla questione nucleare: l’avventura dell’arricchimento dell’uranio è estremamente dispendiosa e se fino ad ora ha avuto comunque l’approvazione dell’opinione pubblica, in questo momento di difficoltà la gente potrebbe cambiare idea. Al regime serve solo un pretesto per ridimensionare le proprie aspettative nucleari e certamente una protesta popolare contro il nucleare offrirebbe l’opportunità di negoziare in nome del “bene pubblico”, senza perdere la faccia.

Va tutto per il meglio, quindi? Forse. Non bisogna infatti dimenticare che le autorità iraniane combattono una guerra di propaganda contro Stati Uniti e alleati accusati di essere la causa principale della collassata economia. Anche il giorno dopo la serrata del bazar, Ahmadinejad è comparso in televisione, per tranquillizzare i connazionali e sottolineare come la debacle del rial sia dovuta alle sanzioni che impediscono le esportazioni del petrolio. Se lo scontento popolare nei confronti del regime è palpabile, lo è altrettanto l’aumentante odio nei confronti dell’occidente ritenuto responsabile di strangolare nella morsa economica non tanto il regime quanto la popolazione senza colpe.

Inoltre, prima di dare per sconfitta la dirigenza di Tehran, bisogna mettere in conto i possibili colpi di coda: se la valuta nazionale va malissimo, in compenso la borsa regge egregiamente e il Paese è preso d’assalto da investitori russi e cinesi.

Con le dovute differenze, il regime di Tehran sembra sempre più assomigliare a quello di Damasco: entrambi con un piede sulla fossa, entrambi entrati in una agonia senza fine che, al momento, va a discapito solo dei loro innocenti cittadini.

 da Giornale di Brescia 7/10/2012

I continui errori di Washington in Medio Oriente

Nella piattaforma programmatica di Obama e del suo rivale manca un capitolo importante: che fare in Medio Oriente nel prossimo mandato. La politica americana continua a essere carente nei confronti di una zona ampia e cruciale, nella quale seguita a mietere insuccessi clamorosi, soprattutto per mancanza di diplomazia, di analisi e di acume politico. Non si è ancora elaborato il lutto per l’ambasciatore ucciso in Bengasi dai terroristi ed ecco che Washington in questi giorni sdogana un gruppo iraniano, i Mujaheddin-e Khalq (MEK), dall’elenco dei gruppi terroristi esteri più pericolosi. Il sospetto condiviso da molti è si tratti di un premio concesso per l’aiuto prestato dal MEK in atti di sabotaggio compiuti a danno del programma nucleare della Repubblica Iraniana. Ancora una volta, quindi, gli Stati Uniti favoriscono gruppi estremisti perché lottano contro un nemico comune, salvo poi diventarne la prossima vittima.

Inoltre, gli Stati Uniti continuano la stretta collaborazione con l’Arabia Saudita, alla cui ideologia wahhabita si ispirano, tra l’altro, proprio gli attentatori che hanno ucciso l’ambasciatore americano di Libia; e mentre Washington si proclama a favore dei movimenti democratici dei popoli arabi, Riyadh ospita l’ex dittatore tunisino Ben Ali, rifiutandosi di consegnarlo a un tribunale internazionale dove dovrebbe essere processato per aver represso i propri cittadini.

I paesi mediorientali di cui l’America fino a poco tempo fa controllava i destini si stanno ribellando: anche l’ambasciata di Sanaa è stata oggetto di un attacco dopo l’uscita del famigerato film su Maometto, ma la folla inferocita non era tanto composta da barbuti inturbantati e offesi dal vilipendio del loro profeta, quanto da giovani in abiti occidentali arrabbiati per un drone americano che ha abbattuto dieci innocenti civili, urlando slogan contro l’ambasciatore Gerald Feierstein, grande sostenitore dell’ex Presidente Saleh. E’ la prima volta che un diplomatico americano viene fatto oggetto di pesanti dimostrazioni e accuse, ma ciò comprova quanto il sentimento anti americano sia rafforzato e esteso.

Se gli yemeniti rimproverano a Washington l’ingerenza interna, i bahreiniti si lagnano perché gli Stati Uniti chiudono gli occhi davanti al massacro perpetuato da quasi due anni sotto i loro occhi, complici, ancora una volta, i sauditi che hanno inviato le loro truppe per aiutare la dinastia di Manama a soffocare nel sangue la rivolta dei cittadini richiedenti riforme e giustizia.

E mentre Washington ha abdicato al proprio ruolo di pacere nella questione palestinese, ora più che mai ferma a un punto morto, potenti lobby premono su Obama chiedendo invece interventi militari volti a stroncare il terrorismo in Libia o il programma nucleare in Iran.

La politica americana in Medio Oriente è ambigua e autolesionista, soggetta a chi ritiene che, pur di contrastare l’Iran, considerato il nemico per eccellenza, si debba continuare l’alleanza suicida con regimi liberticidi e protettori del terrorismo quali l’Arabia Saudita.

Brutte notizie giungono pure dal fronte afghano: è stata definitivamente sospesa l’attività di sostegno alle forze di sicurezza locali, un chiaro segno del fallimento del lungo e costoso addestramento della forza di polizia locale. Ad Obama serve quindi un successo, e questo non arriverà senza una nuova strategia: ma il successo della politica americana in Medio Oriente serve altresì alla pace, e a noi tutti.

 

da Giornale di Brescia 30/9/2012

I fatti di Libia e Egitto

Gli eventi egiziani e libici di questi giorni si svolgono come una sorta di terribile dèjà vu: in concomitanza all’anniversario dell’11 settembre, un film blasfemo nei confronti dell’islam scatena attentati e disordini contro persone e simboli americani.

Tuttavia, i timori occidentali, questa volta, sono rafforzati dall’idea che ciò sia potuto accadere perché “primavere arabe” hanno portato al potere partiti ammiccanti a gruppi estremisti quali i Salafiti, sospetti di collusione con al-Qaeda, il cui vessillo sventolava nelle mani degli attaccanti l’ambasciata americana al Cairo.

E’ indubbio che la nuova direzione politica egiziana abbia cavalcato l’evento, anche se la protesta, in sé, è nata spontanea e fra gli scalmanati si sono notati pure gruppi di ultrà sportivi già attivi in piazza dai primi giorni della “primavera egiziana”. Ma è quantomeno strano che i facinorosi si siano potuti avvicinare così all’ambasciata, uno dei posti solitamente meglio protetti dell’Egitto.

Vi sono varie chiavi di lettura dell’evento: la situazione è tutt’altro che facile, la direzione del Paese è confusa e frammentata grazie alla tensione tra due poteri forti, ovvero i Fratelli Musulmani e le forze armate, tensione accresciuta pure dall’aiuto promesso dal Fondo Monetario Internazionale per l’economia egiziana che sta andando a rotoli: chi gestirà i fondi, e come? In questo momento, è soprattutto il Presidente Morsi a condurre la trattativa con il FMI, e sembra proprio che, come il suo predecessore, voglia giocare la carta del “pericolo islamista” per alzare la posta, magari alimentando il vento mai assopito dell’anti americanismo.

Risulta chiaro, infatti, che il sentimento antiamericano si è rafforzato nell’area, e ciò spiega, in parte, pure i sanguinosi fatti di Libia. Qui gli attacchi sono stati premeditati e condotti in modo professionale, ma rappresentano solo la conclusione violenta di una serie di attentati contro rappresentanze americane, britanniche e addirittura contro la Croce Rossa, compiuti in Libia in questi ultimi sei mesi. Nel paese nordafricano i tumulti continuano ad essere all’ordine del giorno, e il risentimento anti occidentale è forte, non solo tra i nostalgici del Colonnello, ma pure tra i suoi sovvertitori. Questi ultimi hanno più volte chiesto agli organismi internazionali di ammettere i loro errori passati, soprattutto la collaborazione con Gheddafi dal 2004 in poi, quando, per paura di una possibile invasione nera dell’Europa e per siglare lucrosi contratti di fornitura energetica, le potenze occidentali hanno tenuto in sella il Colonnello e il suo regime di polizia. Esponenti dell’attuale dirigenza libica hanno formalmente chiesto all’Unione Europea di essere trattati con rispetto ed avere giustizia, ad esempio di poter giudicare gli agenti del servizio segreto libico che hanno torturato e ucciso migliaia di connazionali e ora, grazie all’intervento della CIA, si godono una dorata pensione in Qatar.

Contrariamente all’Egitto, in Libia non sono andati al potere partiti islamisti, ma non per questo la situazione va sottovalutata: umiliazione e frustrazione sono presenti nell’area e per evitare altri futuri disastri queste considerazioni dovrebbero entrare prepotentemente tanto nell’agenda di Washington quanto in quella di Bruxelles.

 da Giornale di Brescia 15/9/2012

Iran: terremoto fisico e politico

Le catastrofi naturali sono banchi di prova per i governi dei paesi, così il terremoto che ha duramente colpito l’Iran occidentale lo scorso 11 agosto sta mettendo a nudo una serie di defaillance nella direzione della Repubblica Islamica, accusata sia di essere intervenuta con mezzi esigui a soccorso delle popolazioni colpite, sia di non aver dato tempestivi e ampi resoconti della disgrazia.

Il terremoto giunge ad acuire le sofferenze di una popolazione sempre più stremata da quella che è la peggior crisi economica da quando è stata varata la Repubblica Islamica, perfino peggiore di quella causata dalla lunga guerra contro l’Iraq negli anni ’80. La valuta nazionale (rial) è al minimo storico, e chi può investe il proprio denaro in valuta straniera, oro e proprietà immobiliari, svuotando le banche, dove i conti correnti valgono metà rispetto allo scorso anno. D’altro canto, il prezzo della vita è aumentato in modo esorbitante, e l’Iran sta soffrendo quella che viene chiamata “la crisi del pollo”: il volatile, che costituisce l’alimento base della dieta iraniana, ha visto il proprio prezzo triplicare in meno di un anno, e molti iraniani ormai non se lo possono più permettere. Tiene ancora bene il prezzo dell’altro cibo immancabile sulle tavole iraniane, il riso, che l’Iran compra dall’India in cambio di petrolio.

Ci si aspetterebbe la solita difesa da parte della autorità iraniane che costituisce nell’accusare “agenti esterni” per le sempre maggiori difficoltà economiche, ma ora questo gioco sembra finito: il regime ha sempre negato che le sanzioni internazionali lo stessero colpendo, e non può certo ammetterlo adesso.

La strada più semplice sembra l’individuazione di un capro espiatorio interno, e l’attuale Presidente della Repubblica sembra essere l’agnello sacrificale individuato. Accusato di aver favorito l’inflazione con una scriteriata politica dei sussidi, il Presidente ora rischia l’esautorazione ben prima che il suo mandato scada (giugno 2013), se non, addirittura, l’arresto, come ventilano voci interne. Ma anche in questa eventuale operazione la Guida Suprema del Paese, l’ayatollah Khamenei, ha le mani legate, se non altro, in parte: egli ha sempre sostenuto Ahmadinejad, anche di fronte ai tumulti del 2009 e almeno fino a un paio di anni or sono, e ora dovrebbe pubblicamente ammettere il proprio sbaglio madornale.

In questa situazione di impasse in cui tutti sono contro tutti, chi sopporta il peso della lunga crisi è la popolazione: quella colpita dal terremoto non può nemmeno contare sugli aiuti internazionali su cui pende la spada delle sanzioni. L’ufficio per il controllo dei capitali stranieri (OFAC) dipendente dal Ministero del tesoro statunitense ha pubblicato la lista dei beni da poter recapitare alla popolazione terremotata, ma il procedimento per far giungere medicinali e generi di prima necessità è così arzigogolato e difficile da renderlo impossibile. Nel contempo, le organizzazioni umanitarie internazionali lamentano come in Iran manchino medicinali di prima necessità, soprattutto pediatrici, carenza che costituisce un pericolo per giovanissima popolazione iraniana.

Se le sanzioni intendevano alimentare un possibile sollevamento popolare verso il regime, hanno fallito: la classe media iraniana, che costituisce il motore di rinnovamento e tensione verso la democrazia, è la più colpita ed incapace di organizzarsi, mentre i notabili del regime (incluso il corpo di guardie rivoluzionarie) dominano un’economia fatta di contrabbandi e scambi commerciali con paesi non allineati. A questo proposito, il 31 p.v. Tehran ospiterà il vertice dei paesi non allineati durante il quale il Presidente egiziano Morsi passerà la presidenza di turno all’Iran. La visita di Morsi è storica in quanto sarà la prima da parte di un alto responsabile egiziano in Iran da quando vige la Repubblica Islamica. Da quest’incontro il regime spera di trovare nuove alleanze e linfa per continuare. Resta da vedere quale sarà il destino degli iraniani.

da Giornale di Brescia 23/8/2012

Turchia in ansia per i curdi siriani

Nella crisi siriana si stanno affermando dei nuovi attori, ovvero, i curdi. Spostandosi verso il nord

ovest del loro paese, al confine con la Turchia, i curdi siriani che hanno sottratto al controllo delle

forze fedeli a Bashar al-Assad diverse cittadine, stanno mettendo in apprensione le autorità turche.

Ankara, sotto qualsiasi governo, si sa, non ha mai amato i curdi, anzi, la “questione curda” è quella

che spesso compatta tutte le compagini politiche del Paese: non desta meraviglia, quindi, che in questi

giorni l’opinione pubblica turca si stia chiedendo che cosa intenda fare il proprio governo.

Il Primo Ministro Erdoğan ha già ammonito la coalizione curda che si è attestata ai confini siro-

turchi, colpevole, secondo fonti turche, di aver issato come propria bandiera quella del PKK, il

Partito del Lavoratori già capeggiato dal famoso Őcalan, da tempo ospite delle carceri turche,

mentre il suo partito è stato dichiarato fuori legge per attività terroristica da Ankara.

I curdi siriani, comunque, sono divisi in partiti e fazioni non necessariamente concordi tra loro,

anche se è chiaro che tutti, nel panorama di disfacimento della Siria degli Assad, mirano a crearsi

uno stato indipendente, probabilmente guidato da una federazione formata dai vari gruppi simile a

quella creatasi nell’Iraq post Saddam. Una situazione malvista da Ankara, allarmata da un nuovo

stato curdo indipendente che possa spingere i numerosissimi curdi residenti fra i propri confini a

tentare di fare altrettanto.

Per il partito di Erdoğan questa è l’ennesima sfida lanciata dalla crisi siriana: da un lato, il governo è

tartassato dalle richieste dell’opinione pubblica che chiede la verità riguarda all’abbattimento dei

due F4 abbattuti dalle forze siriane oltre un mese fa. Damasco se ne è assunta la responsabilità, ma

il meccanismo dell’incidente non è chiaro, e le dichiarazioni del governo nemmeno. Sembra, infatti,

che i due aerei siano stati abbattuti in territorio siriano, non internazionale come affermato da Ankara

:ciò significherebbe che è stato commesso un atto irresponsabile da parte delle autorità turche che

avrebbe potuto condurre a una guerra con la Siria, senza che l’opinione pubblica ne fosse stata informata.

Dall’altra, gli oltre 45mila profughi siriani ospitati nei campi tendati turchi stanno divenendo un

problema: in questi giorni la polizia è dovuta intervenire con i gas lacrimogeni per sedare la protesta

dei profughi che si lamentano per le difficili condizioni di vita. Con il caldo intenso di questi giorni le

baracche in lamiera divengono dei forni, mentre il cibo offerto alla sera a conclusione della

giornata di Ramadan pare essere troppo scarso. Una situazione destinata a peggiorare perché,

nonostante la frontiera con la Siria sia stata chiusa, permangono dei valichi offerti proprio

ai fuggitivi dal regime di Assad, che ci si aspetta arrivino copiosi con la definitiva caduta del

regime.

Riuscirà la Turchia a governare tutto questo?

Se Ankara riuscirà a fronteggiare la situazione, anche dominando le proprie emozioni anti-curde,

diverrà la maggiore beneficiaria del cambiamento di regime siriano. La caduta di Assad spazzerà via

le ambizioni nell’area dell’amico-nemico Iran, lasciando alla Turchia il ruolo principale di ricostruttore

della nuova Siria. Mentre i paesi arabi, troppo presi con le loro diatribe, non hanno finora svolto

alcun ruolo rilevante nel conflitto siriano, la Turchia se ne assunta il ruolo leader, almeno per quanto

riguarda il lato umanitario-assistenziale, e vorrà mantenere tale ruolo anche nella ricostruzione

del paese limitrofo. Ma per fare ciò, la Turchia deve risolvere anche la sua “questione curda”, e

questo è il momento giusto per farlo.

pubblicato da Giornale di Brescia 1/8/2012

Gli Emirati danno soldi=gli Emirati sono perfetti (anche se musulmani…)

La faccia sorridente di Zlatan Ibrahimovic campeggia sulle pagine sportive dei giornali internazionali dopo che il fuoriclasse ha raggiunto la nuova squadra, il Paris Saint German per una cifra iperbolica, facendo aumentare a oltre 112 milioni di euro il budget sborsato dal PSG per acquistare i giocatori destinati alla nuova stagione. A consentire questi acquisti favolosi è il nuovo proprietario della squadra, l’emiro Sheikh Tamim Bin Hamad al Thani, membro della famiglia che regna nel Qatar, il quale non ha problemi di liquidità e, come già altri familiari e/o emiri di altri Paesi del Golfo prima di lui, mira a conquistare l’Europa, per ora solo calcisticamente. Questi ingenti investimenti di denaro provenienti dagli emirati sembrano far felici molti, e nessuno, in questo caso, sembra preoccuparsi di possibili ingerenze degli emiri nei destini europei né tanto meno gridano allo scandalo per questa “invasione islamica”. Sono lontani i tempi in cui atleti e  tifosi sollevavano obiezioni sulla partecipazione ai mondiali ospitati da paesi altamente illiberali, quali i mondiali di calcio in Argentina, negli anni ’70, o, più recentemente, alle olimpiadi cinesi di qualche anno fa.

Pecunia non olet, si sa, ma lo sport è paradigmatico di una certa miopia che pare affliggere molti, che accolgono trionfanti i soldi degli emiri con la scusa che migliorano la qualità del calcio europeo, ma non si preoccupano del fatto che questi personaggi sperperano all’estero denaro che andrebbe investito all’interno dei propri paesi migliorando la qualità di vita dei cittadini. Certo, il Qatar ospiterà addirittura i mondiali di calcio tra qualche anno, costruendo stadi con l’aria condizionata che consentiranno di giocare in un Paese, che d’estate, raggiunge i 50 gradi con il 100% di umidità:  ma qualcuno pensa alle condizioni delle migliaia di addetti che stanno già lavorando a queste strutture in condizioni spesso disumane? Certo, non si usano i qatarini per queste mansioni, per non creare scontento interno e contestazioni al regime, bensì milioni di pakistani, indiani, filippini e indonesiani che non hanno alcun diritto.  E per quanto riguarda i qatarini, forse gli emiri favoriscono le attività sportive dei loro cittadini? A giudicare dalla scarne rappresentanze da loro inviate ai giochi olimpici di Londra non si direbbe, senza contare che il Comitato Olimpico internazionale ha dovuto sostenere un vero e proprio braccio di ferro con molti di loro affinché includessero almeno una donna nel gruppo di atleti destinati a partecipare alle olimpiadi 2012.

A proposito di donne, quest’estate sta vedendo un aumento esponenziale di turisti nel nostro Paese in arrivo proprio da molti Paesi del Golfo. La loro presenza è marcata dalle loro compagne, moltissime delle quali arrivano con il velo integrale, o niqab che ricopre la faccia. Solitamente basta una di queste visioni nelle nostre strade per mandare in fibrillazione i difensori della laicità, della cultura locale, dei diritti delle donne ecc ecc.; ma in questo caso nessuno strepita, vuoi, perché anche col niqab le donne del Golfo amano le grandi firme, e con i loro pingui acquisti nelle boutique nostrane contribuiscono positivamente alla crisi che ci attanaglia, vuoi perché si pensa trattarsi di una presenza transitoria. Da questi Paesi accettiamo solo il denaro, chiudendo gli occhi su scomode “usanze”, incuranti del fatto che lì la democrazia non possa nemmeno essere nominata,  accanendoci verso altre realtà geo-politiche che non ci portano alcun vantaggio immediato.

Pubblicato da Giornale di Brescia 25/7/2012