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Bahrain, Formula 1, e la pulizia nei confronti degli sciiti

Il Bahrain è un paese “tranquillo e pacifico”: così s’era espresso Bernie Ecclestone, proprietario dei diritti commerciali della Formula Uno, solo la settimana scorsa, annunciando la propria decisione di mandare avanti il carrozzone della miliardaria gara automobilistica nel tormentato Paese del Golfo, nonostante molti osservatori avessero consigliato il contrario.

Ecclestone è stato clamorosamente smentito, e non poteva essere altrimenti: il Bahrain è in fiamme da oltre un anno, anche se la copertura mediatica internazionale latita, confermando che non tutte le rivoluzioni sono gradite e quindi pubblicizzate allo stesso modo. L’altr’anno, per dire il vero, la gara era stata sospesa proprio per motivi di palese insicurezza dovuti alle continue manifestazioni di protesta dei cittadini bahrainiti (35 dei quali uccisi proprio alla vigilia della kermesse automobilistica) e della cruente repressione messa in atto dalla dinastia regnante al Khalifa nei loro confronti. Sono state appunto le autorità di Manama a caldeggiare la ripresa della Formula Uno sul loro territorio, per dimostrare che la situazione era rientrata e loro nuovamente in controllo: ma non è così. Solo la scorsa settimana, un manifestante di 15 anni è morto a seguito dei colpi sparati dalla polizia, ennesima vittima di una guerra che si protrae da troppo tempo fra la società civile e le forze del governo, queste ultime supportate dall’esercito saudita. L’Arabia Saudita, infatti, sta perseguendo una”pulizia etnica” nei confronti degli sciiti presenti sia sul proprio territorio sia in altri paesi del Golfo, e abbina la propria repressione armata con la persuasione, nei confronti delle popolazioni sunnite, di voler perseguire il loro bene ed estirpare la presenza sciita in quanto “quinta colonna” dell’Iran che vorrebbe allungare le mani sul petrolio sunnita. L’unico risultato, per ora, è che la tensione settaria nel Golfo è drammaticamente cresciuta, e che anche gruppi sunniti, contrari alla monarchia dei Sa’ud, incoraggiati dalla proteste sciite si stanno organizzando e manifestando contro il proprio governo. In questo modo, la potenza saudita sta ottenendo proprio l’effetto contrario, quello di far crescere un movimento d’opposizione trasversale (sunniti e sciiti) a possibile beneficio proprio del nemico iraniano.

Anche la forzata manifestazione automobilistica in Bahrain sta producendo l’indesiderato effetto di avere gli occhi dell’opinione pubblica internazionale finalmente rivolti ad abusi e repressione: i Khalifa hanno le prigioni piene di cittadini rei solo di aver manifestato pacificamente contro la loro dittatura; di medici e infermieri, colpevoli di aver medicato i feriti dalle forze governative; e di giornalisti e blogger che hanno documentato quanto accaduto.

Ora, qualcuno tenta di confondere le carte in tavola asserendo che si tratta di manifestazioni anti occidente, ma i bahrainiti non hanno nulla contro l’occidente, avevano solo chiesto di non iniziare una manifestazione sportiva che avrebbe avallato e legittimato un regime del quale essi chiedono la rimozione. Certo, nella sua ultima edizione (2010), la Formula Uno aveva portato cento mila persone a Manama, con un giro d’entrate per la monarchia aggirantisi attorno al mezzo miliardo di dollari: ora, invece, ma solo dopo un ennesimo spargimento di sangue, alcuni parlamentari britannici hanno chiesto la sospensione della gara in quanto legittima le politiche repressive del governo bahrainita.

Questa lodevole iniziativa deve ora continuare, censurando la monarchia di Al Khalifa e richiamandola al rispetto dei propri cittadini.

 

Pubblicato in Giornale di Brescia 24/4/2012.

Nucleare iraniano: attenzione a non umiliare

Dopo ripetuti e falliti colloqui, quello di Istanbul s’è aperto con un cauto ottimismo da parte delle potenze occidentali, convinte che l’Iran sia fiaccato dalle sanzioni, dall’inflazione interna, e dalla paura di un possibile attacco israeliano. Siano queste o no le motivazioni, è certo che da parte iraniana sembra manifestarsi, rispetto al passato, una più chiara volontà di compromesso.

Dopo le ripetute dichiarazioni della Guida Suprema, Khamenei, che ha dichiaro che le armi nucleari sono contrarie all’islam (riprendendo la fatwa, o responso religioso, già espresso molti anni fa dal leader della Rivoluzione, l’ayatollah Khomeini), alla vigilia dei colloqui è apparso sul Washington Post un lungo articolo firmato da Ali Akbar Salehi, Ministro degli Esteri iraniano, il quale ribadisce la volontà del proprio paese di perseguire il nucleare solo per scopi pacifici e di essere convinto della necessità del dialogo con tutte le potenze. Salehi, però, ha sottolineato che il dialogo deve svolgersi nel mutuo rispetto: e in ciò, forse, sta la chiave per l’esito positivo dei colloqui e per la loro prosecuzione. Non bisogna dimenticare, infatti, che le autorità iraniane si stanno giocando la faccia in questo negoziato e che non possono assolutamente permettersi di presentarsi all’interno del proprio Paese come coloro i quali hanno ceduto perché stretti dalle sanzioni e dalla pressione internazionale. L’Iran ha già subito lo smacco di almeno quattro scienziati nucleari uccisi all’interno del proprio territorio: dopo aver accusato le potenze straniere degli assassini, il mese scorso ne hanno avuto conferma proprio dalla rete americana NBC, cui due alti ufficiali di stato hanno confessato che le uccisioni degli scienziati è stata portata a termine da agenti del MEK (Mujaheddin-e Khalq), un’organizzazione terroristica iraniana anti-regime che ora opera grazie ai finanziamenti e alla protezione statunitense.

I sospetti iraniani sono forti anche nei confronti dell’agenzia per nucleare IAEA, i cui ispettori sono diffidati quali possibili agenti segreti che, con la scusa di controllare gli impianti nucleari, passerebbero poi preziose informazioni logistiche alle potenze straniere. La stampa iraniana ha più volte ricordato il precedente iracheno: negli anni ’90, infatti, l’UNSCOM, agenzia speciale creata dall’ONU per controllare l’arsenale di Saddam, risultò essere una base grazie alla quale i servizi segreti americani poterono costruire un’intelligence interna, utilizzata in seguito per abbattere il dittatore di Baghdad.

Ecco perché l’Iran non vuole, nelle fila degli ispettori IAEA incaricati di ispezionare l’altopiano, nessun cittadino di paesi anglosassoni.

Al di là di sospetti e diffidenze, in Iran l’aspettativa per questi colloqui è forte; qualche giorno fa s’è espresso in modo favorevole alla ripresa di rapporti con il resto del mondo, Stati Uniti compresi, anche l’ex Presidente della Repubblica Rafsanjani. Parlando a una rivista di studi internazionali iraniana, Rafsanjani, da tempo all’opposizione, anche se riveste tutt’ora un’alta carica di stato, ha ribadito il non interesse dell’Iran per il nucleare bellico. Ma anche Rafsanjani ha sottolineato la necessità di “rapporti alla pari”. L’orgoglio nazionale iraniano unisce il regime ai suoi oppositori ed è importante tenerne conto, se si vuole arrivare ad un compromesso, necessario a tutti.

pubblicato da Giornale di Brescia 17/4/2012

Erdogan e la sfida ad Assad

Domenica scorsa, Istanbul ha ospitato il secondo incontro degli “Amici della Siria”, 80 paesi occidentali e arabi, riunitisi per decidere quali misure adottare per costringere Assad a mollare l’assedio sui suoi concittadini e, possibilmente, pure il potere. Il summit s’è concluso in modo piuttosto inconcludente, così come era accaduto al primo di quest’incontri, tenutosi in Tunisia il mese scorso. E ciò nonostante la conferenza si sia svolta in Turchia con l’apertura del suo Primo Ministro Erdoğan, che ha degli ottimi motivi per spingere i partner ad esser più incisivi contro Assad: circa 17mila siriani rifugiati nel suo Paese che costituiscono una minaccia alla stabilità, anche economica, raggiunta da Ankara.

Erdoğan è addirittura volato in Iran qualche giorno fa, cercando di convincere il più fedele alleato di Assad dell’area a cambiare posizione, ma Tehran è stata inflessibile, nonostante la Turchia appoggi la Repubblica Islamica nel suo pervicace perseguimento dell’energia nucleare e si dichiari ostentatamente contraria ad ogni ipotesi di attacco contro l’Iran. Tehran, tra l’altro, teme che la caduta di Assad si converta in un accrescimento di potere della Turchia in Medio Oriente, a discapito dell’opera svolta in questi anni dall’Iran per divenire l’attore protagonista.

L’alleanza tra Ankara e Tehran, pur tra alti e bassi, continua, perché l’una ha bisogno dell’altra e perché il volume di scambio tra i due Paesi ha raggiunto, nell’ultimo anno, la cospicua somma di 16 miliardi di dollari.

Incassato il parere negativo di Tehran, stante il veto di Cina e Russia ad un intervento contro Damasco e l’indecisione degli “80 amici”, Erdoğan si rivela sempre più impaziente, soprattutto dopo che le Nazioni Unite hanno dichiarato di voler prendere in considerazione un accordo tra Assad e il suoi oppositori. Il Primo Ministro turco, infatti, teme che il possibile successo di una tale operazione (caldeggiata, tra gli altri, dall’ex segretario generale ONU, Kofi Annan), possa mantenere in qualche modo al potere Assad, mentre ormai egli ha dichiarato guerra al leader siriano. In queste settimane, infatti, dopo aver inviato i suoi generali in un blitz teso a controllare la possibilità di creare una “zona cuscinetto” tra Turchia e Siria (dove presumibilmente collocare i rifugiati sotto controllo dell’esercito turco), Ankara ha pure chiuso la sua ambasciata a Damasco. Queste nervose operazioni hanno suscitato qualche preoccupazione sia fra molte autorità turche, che ritengono che il loro Premier stia prendendo iniziative che lo isolano dagli alleati, sia fra questi ultimi, sospettosi del ruolo di gendarme dell’area che Erdoğan sembra volere assumere.

Il nervosismo di Erdoğan appare evidente pure dalla sua nuova campagna anti Alevi, accusati di essere dei basisti dell’elite governativa siriana, composta da Alawiti. Ma Alevi (una corrente mistica presente solo in Turchia, minoritaria e perseguitata) e Alawiti (una corrente sciita cui aderiscono gli Assad e il loro entourage) hanno assai poco da spartire, se non l’assonanza del nome, e certo Erdoğan ne è ben al corrente. Ma il fatto che il Kemal Kılıçdaroğlu, leader del maggiore partito d’opposizione turco (Socialdemocratico) sia Alevi ha certamente ispirato Erdoğan a questa piccola battaglia mediatica contro i suoi principali oppositori interni. Due piccioni con una fava per il furbo leader turco, che con ogni mezzo si sta preparando un futuro per il post premierato anche al di là dei confini nazionali.

pubblicato da Giornale di Brescia, 6/4/2012.

 

Ennahda, la Costituzione e l’economia tunisine

Finalmente una buona notizia dalla Tunisia: il partito Ennahda ha deciso di non toccare il primo articolo della Costituzione che ancora il Paese alle sue radici storico-religiose, ma anche laiche. La decisione di confermare l’articolo primo senza inserire, quindi, la dicitura che avrebbe definito la Tunisia quale “Stato islamico” è di fatto un segnale positivo, dopo le incerte, per non dire ambigue, dichiarazioni pronunciare da Ghannouchi e compagni negli ultimi mesi. Soprattutto, Ennahda non si è fatto intimorire dalle manifestazioni di piazza di stampo salafita svoltesi nei giorni scorsi e che chiedevano a gran voce di implementare “la legge di Dio” (ovvero, la shari’a) a discapito di quella degli uomini. Anzi, Ghannouchi è intervenuto duramente, rammentando ai salafiti che la strada da loro imboccata porta alla guerra civile, un discorso che, purtroppo, non è piaciuto nemmeno ad alcuni del suo partito, i cosiddetti “giovani” che sono però assai più fondamentalisti di Ghannouchi (chi ha detto che i giovani sono sempre portatori di novità positive?!). Ciò rischia di creare una frattura all’interno del partito di maggioranza tunisino, ma forse anche ad avvicinare a Ghannouchi la componente laica presente nel Paese, finora assai sospettosa nei confronti del carismatico leader.

Rispetto agli altri stati coinvolti nella “primavera”, la Tunisia ha senza dubbio molti requisiti che fanno sperare in un suo deciso avvio sulla strada della democrazia, in primis la sua componente laica; inoltre, il Paese non è squassato da divisioni etniche, presentandosi alquanto omogeneo sotto questo aspetto che invece provoca disastrose conseguenze in altri stati arabi (vedi l’Iraq e la Libia); senza contare che possiede delle istituzioni che hanno dimostrato una buona tenuta democratica, a cominciare dall’esercito, composto da professionisti e scarsamente politicizzato.

Comunque, bisogna tener presente l’evoluzione della società tunisina, che perlopiù avanza la richiesta di democrazia non vissuta in contraddizione con la propria appartenenza religiosa e culturale, ma con questa dinamicamente integrata. Rachid Ghannouchi è stato abile a capire tale mutamento, anche perché lui stesso incarna, in parte, questa evoluzione. Difatti, fino ad oggi Ghannouchi si è attenuto a un profilo basso proponendo un programma moderato dove l’islam sembra quasi una cornice culturale di riferimento piuttosto che costituire un obiettivo politico nel senso deleterio che a volte ha assunto in altri contesti, ovvero, di unico e assoluto parametro di governo.

Nel distanziarsi dall’”islam politico” da parte di Ghannouchi potrebbe aver giocato un ruolo influente pure la convenzione, da stipularsi in questi giorni a Tunisi, con la quale la UE trasferirà alla Tunisia sei milioni e 477 mila euro da destinare allo sviluppo delle zone disagiate del Paese.

Nel quadro positivo tunisino, senza dubbio pesa pure il fattore economico: la Tunisia ha un PIL relativamente alto rispetto agli altri paesi coinvolti nella “primavera” e i suoi contatti economici con l’Europa sono decisamente più saldi. Ma Ghannouchi dovrà tenere in mente che i primi moti rivoluzionari sono scoppiati perché c’erano dei suoi connazionali che chiedevano, oltre a libertà e giustizia, lavoro e equità sociale. La vera sfida per Ennhada sarà proprio questa: le derive islamiste vanno di pari passo con l’insoddisfazione economica e nel Golfo sono sempre pronti ad approfittarne. Il vero impegno, ora, è assicurare il benessere economico a quanti più tunisini possibile.

pubblicato da Giornale di Brescia 31/3/2012.