E’ mancata Farideh Mashini/درگذشت فریده ماشینی

E’ morta dopo lunga malattia Farideh Mashini, una grande protagonista del movimento femminile in Iran. Già a capo della Commissione Donna del Fronte di Partecipazione, si era battuta per le quote rosa e per una maggiore partecipazione alla politica attiva delle sue connazionali.

Farideh era ricercatrice presso la più antica ONG di Studio e Ricerca delle Donne in Iran, una delle prime istituzioni a sponsorizzare la pubblicazione di uno studio sul Corano in prospettiva femminile e redatto da una donna. Farideh Mashini era convinta assertrice della validità del “femminismo islamico”, l’avevo incontrata anni fa mentre facevo ricerca per il mio libro sull’argomento e mi aveva impressionata per la sua forza e per le sue idee. Mi aveva detto, tra l’altro: “Io sono Musulmana e l’islam predica l’uguaglianza dei sessi, ma vi sono diverse interpretazioni dell’islam. se ci fosse la possibilità di affermare una visione islamica femminista, allora molti dovrebbero smettere di commettere azioni sbagliate in nome dell’islam”.

E’ un lutto per la società civile iraniana e non solo.

Baghdad e nucleare iraniano

Ci riprovano. Il 23 maggio le grandi potenze occidentali si incontrano con i rappresentanti della Repubblica Islamica d’Iran a Baghdad per discutere di nucleare. Dopo il timido risultato di Istanbul nell’aprile scorso che, in sostanza, ha più che altro solo fatto riprendere le trattative in un clima meno teso, questa volta lo scenario si apre con molte novità. Innanzitutto, il cambio di presidenza in Francia può essere ricco di conseguenze: Sarkozy ha sempre usato la linea dura con l’Iran, chiedendo l’inasprimento delle sanzioni e non nascondendo una sua eventuale propensione ad un intervento armato (Libia docet). Ma Hollande sta prendendo le distanze dal suo predecessore e intende perseguire una nuova politica estera. Ciò non significa che Parigi intenda stravolgere la propria posizione nei confronti del nucleare iraniano, ma in questi giorni un ex primo ministro socialista, Michel Rocard, si è recato in Iran per una visita privata, il cui significato non è certo sfuggito alle autorità iraniane, che ora si sentono imbaldanzite dal venir meno di un nemico sullo scacchiere internazionale.

Nel frattempo la Cina, che aveva riluttantemente diminuito le importazioni di greggio iraniano, le ha riprese su vasta scala. Qualche osservatore ha sottolineato che potrebbe trattarsi solo di una ritorsione dovuta all’ospitalità offerta dagli Stati Uniti ad dissidente cinese Chen Guangcheng, ma in realtà il traffico di petrolio dal Golfo Persico verso la Cina è ripreso alacremente già da due mesi, confermando come Beijing sia alleata poco affidabile nel gruppo dei 5+1.

Inoltre, per la coesione del gruppo internazionale “anti nucleare iraniano” la defezione di Putin al summit dei G8 tenutosi nei giorni scorsi a Washington suona come un campanello d’allarme: che la posizione della Russia nei confronti dell’Iran sia sempre stata ambigua è risaputo, ma in questo momento una ritirata di Mosca comprometterebbe la già poco solida unione dei 5+1.

Su tutto, pesa la profonda crisi che sta sconvolgendo alcuni paesi europei per i quali cancellare le entrate di petrolio iraniano significherebbe dover aumentare i prezzi del combustibile, provando ulteriormente le economie e le tasche dei già scontenti contribuenti.

Tutte notizie che non possono che rallegrare Tehran, che, peraltro, ha teso la mano consentendo l’ingresso nel Paese degli ispettori IAEA, capitanati dal generale Amano, la prima spedizione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica che atterra sul suolo iraniano dal 2009, quando l’IAEA era ancora diretta dall’egiziano Baradei, ritenuto troppo “morbido” nei confronti delle pretese iraniane. Amano e i suoi, invece, vogliono risultati concreti, così come auspicano i 5+1 che colloquiano a Baghdad.

Anche Tehran ha un disperato bisogno di riallacciare le relazioni internazionali, soprattutto di poter riacquistare materiale di ricambio per l’aviazione civile e strumentazione medica di qualità, elementi che difettano ormai da troppo tempo sull’altipiano, facendo, tra l’altro, crescere il senso di insicurezza dei cittadini, molti dei quali hanno rinunciato a effettuare voli interni dopo che si è sparsa la voce che le forniture aeree provengono solo da paesi in via di sviluppo e quindi sarebbero inaffidabili.

Ma la trattativa si presenta tutt’altro che facile, poiché entrambe le parti pretendono un primo passo dall’altra, mentre il successo dell’iniziativa è legato solo a una simultanea azione concreta da parte di entrambi i contendenti.

pubblicato in Giornale di Brescia 23/5/2012

Elezioni in Siria, cattiva informazione e cattiva coscienza

I siriani sono arrivati finalmente alle urne, non certo in un clima sereno, visto che il regime continua imperterrito a mietere vittime, mentre gli oppositori hanno dichiarato il boicottaggio di quelle che chiamano «elezioni farsa».
È indubbio che la tornata elettorale sia l’ennesima manovra messa in campo da Bashar al Assad per prendere tempo e allontanare l’attenzione internazionale dalla repressione: le elezioni dovrebbero essere l’essenza della democrazia, ma sappiamo che in realtà non è così e che troppi regimi si mascherano dietro la periodica indizione di elezioni il cui risultato è già deciso in partenza.
Se nel Paese la dirigenza di Assad è ampiamente contestata, a livello internazionale finora ha goduto di una copertura mediatica incerta e partigiana che non vuole riconoscere che la Siria è controllata da una feroce dittatura peggiore, per certi aspetti, di quella di Ben Ali in Tunisia o Mubarak in Egitto. Forse, è proprio il recente risultato elettorale in questi due Paesi che fa tentennare l’opinione internazionale, timorosa che alla caduta del «laico» Assad segua l’insediamento di una compagine islamista che complicherebbe ulteriormente i rapporti tra Occidente e Medio Oriente. Uno degli spauracchi internazionali a difesa di Assad, infatti, è la sua presunta tolleranza per le minoranze: in realtà il presidente non fa che fomentare le divisioni etnico-religioso-comunitarie, politica già perseguita dal padre Hafiz che, dal golpe del ’70, ha prosperato per anni sulla politica del divide et impera. Che gli Assad alawiti abbiano favorito le ricche élite sunnite è risaputo ed è una delle cause di sperequazioni della Siria: la rivolta, infatti, è figlia di 40 anni di lotte che ora assumono anche il sapore della ribellione di poveri agli abbienti, resi tali dalle corrotte politiche degli Assad. Ma neppure la lettura confessionale del conflitto siriano regge: se internamente l’opposizione è trasversale a tutte le comunità, a livello internazionale si rivela pretestuosa. L’appoggio iraniano ad Assad, infatti, non ha connotazioni religiose (gli sciiti duodecimani, variante dello sciismo dell’Iran, sono in Siria meno del 5%), ma solo politiche. Così come l’appoggio saudita agli anti Assad è determinato non dalla volontà di Ryad di proteggere i siriani sunniti, quanto dalla volontà di combattere a distanza contro l’Iran.
La comunità internazionale ha tollerato per troppo tempo gli Assad che da un lato si proponevano come unico Paese mediorientale stabile, mentre destabilizzavano l’Iraq post Saddam, inviando milizie per organizzare atti terroristici; si ergevano a paladini dei Palestinesi, ma li massacravano nei campi profughi; e hanno mietuto migliaia di vittime fra i cittadini, mentre centinaia di migliaia di siriani vivono profughi in Giordania e in Turchia. Dando per scontato il successo del partito Ba’ath Assad si assicurerebbe altri 14 anni di presidenza: resta da calcolare il numero di vittime che ciò potrà provocare.

pubblicato da Giornale di Brescia, 10/5/2012.

Obama in Afghanistan

Obama a sorpresa in Afghanistan, titolano oggi i giornali, ma la sorpresa, in realtà, non c’è. La visita del Presidente americano era già stata rivelata nei giorni scorsi, poi smentita dal Pentagono e quindi effettivamente eseguita. La vicenda è indicativa di come stanno andando le cose in Afghanistan, dove tutti, Taleban compresi, sembrano conoscere la realtà dei fatti, compresi gli spostamenti di Obama, prima ancora che questi vengano annunciati. Nei giorni scorsi è scoppiata una polemica per come l’ISAF, la forza internazionale presente in Afghanistan, manipoli le notizie relative alle operazioni condotte contro i ribelli: il portavoce ISAF, infatti, accredita le forze afghane per ogni successo riportato contro i Taleban, per mostrare che le truppe locali sono in grado di sostenere la lotta da soli, in previsione dell’evacuazione ISAF prevista nel 2014. Secondo molti osservatori internazionali, soprattutto britannici, presenti sul campo, invece, le truppe afghane sono sempre guidate dall’ISAF, e quindi non in grado di agire autonomamente, confermando il parziale fallimento del programma d’istruzione militare intrapreso dieci anni or sono. I britannici, assieme ai norvegesi, hanno un numero consistente di personale impegnato nell’unità speciale afghana in addestramento, e quindi parlano con cognizione di causa.

Obama è giunto per celebrare il primo anniversario dell’uccisione di Osama bin Laden, ma in Afghanistan c’è ancora poco da festeggiare. Intere zone sono sotto il pieno controllo dei Taleban, i quali agiscono pressoché indisturbati anche in aree dove l’ISAF dovrebbe essere in pieno controllo, come nella capitale Kabul nella quale, a smentire clamorosamente Obama, non appena questi è ripartito i ribelli hanno attaccato un albergo che ospita perlopiù cittadini stranieri, uccidendo sei persone.

Nel contempo, domenica scorsa l’Emirato Islamico d’Afghanistan, che raggruppa il contingente più forte ed organizzato della resistenza anti ISAF, ha lanciato un appello ai media internazionale affinché non pubblichino “notizie false”, quali quella che vorrebbe che vi fossero ripetuti e proficui colloqui tra ISAF e Emirato. Anche in questa vicenda, l’ISAF mostra la propria debolezza: da un lato, infatti, nega l’esistenza dell’Emirato, dall’altro, ne riconosce presenza e legittimità investendolo addirittura del ruolo di partner privilegiato in fantomatici colloqui per uscire dall’impasse in cui la forza internazionale si trova invischiata.

I combattenti dell’Emirato hanno già riportato notevoli successi a metà aprile scorso, quando i suoi sono riusciti a tenere sotto scacco una serie di istituzioni proprio a Kabul, dimostrando di essere in grado di colpire dove, quando e come vogliono. Queste loro azioni, condotte nella capitale, dove sono insediati i mass media internazionali, danno loro risonanza e tornano loro utili in termini di acquisizione di prestigio a livello sia internazionale sia locale; se, infatti, le forze ISAF sono costrette a riconoscer la loro forte presenza, molti afghani si stanno avvicinando ai Taleban decretando loro legittimità e consenso.

E così, al summit previsto per il 12 giugno p.v. a Dubai dedicato alla ricostruzione dell’Afghanistan, vi saranno anche i rappresentanti dell’Emirato (che, peraltro, hanno già aperto una loro ambasciata a Doha) a sedersi accanto a quelli dell’ISAF, della NATO e del governo afghano. Dopo oltre 10 anni di guerra, centinai di migliaia di vittime fra civili e militari e una incredibile spesa che grava sui bilanci di molte nazioni, forse ci si poteva aspettare qualcosa di meglio.

 

Pubblicato da Giornale di Brescia 3/5/2012.