Le conversioni all’islam

Le conversioni alla fede islamica sono in aumento anche nel mondo occidentale. In Gran Bretagna, ad esempio, sono parecchie decine di migliaia i cittadini di fede cristiana, o non professanti alcunché, che hanno abbracciato l’islam, il 75% dei quali rappresentato da donne. Un bel risultato per una religione che molti etichettano quale “misogina”.

In Italia vi sono ormai alcune associazioni che raggruppano i convertiti all’islam, a Milano, Vicenza, Roma, nelle quali la presenza femminile è attiva e in crescita. Non vi sono statistiche precise, perché i diretti interessati non si sono ancora censiti, mentre le illazioni dei media a riguardo sono spesso faziose e irrispettose: la rassegna stampa di reportage sul mondo dei convertiti che ho raccolto trasuda di incredulità, facile ironia sul profilo dei nuovi musulmani, dipinti generalmente come personaggi border line che hanno attraversato tutte le correnti di pensiero e vissuto esperienze di vita diversamente estreme prima di trovare un porto sicuro nell’islam. Le donne, poi, sono considerate solo “convertite per amore”, ovvero, creature fragili che cambiano religione solo perché attratte da un uomo musulmano: incasellate, così, in un ritratto razzista e maschilista.

Certamente le conversioni al buddismo o alle varie religioni “new age” non provocano la stessa reazione causata dall’aumento della popolazione musulmana nel nostro Paese, che inquieta soprattutto coloro i quali identificano l’islam con l’oscurantismo, o, peggio, con il terrorismo. Il fatto poi che siano delle donne a scegliere di aderire all’islam dove, secondo i più, s’annidano tutti i peggiori nemici del genere femminile, dalla poligamia alla lapidazione, dalle mutilazioni genitali all’annullamento della figura femminile nella sfera sociale, risulta inspiegabile e incomprensibile. Ciò avviene soprattutto perché i pregiudizi nei confronti dell’islam sono pervicaci e tenaci: per quanto sia gli stessi musulmani sia gli studiosi dell’islam dichiarino e scrivano con autorevolezza che le cosiddette mutilazioni genitali femminili non sono una pratica musulmana, che lapidazione non è presente nel Corano, che la poligamia è sempre stata fenomeno limitato e controverso e che la presenza delle donne nella società è legata a fattori assai diversi da quello religioso (economico, culturale, geografico, ecc.), l’islam continua a essere identificato come un pericolo soprattutto per la libertà delle donne e, di conseguenza, per l’intera società.

Pertanto, la conversione all’islam (anzi, come dicono i musulmani) il “ritorno” all’islam di milioni di individui si presenta come un rebus di difficile soluzione.

Eppure, basta chiedere le motivazioni della propria conversione agli interessati. Cinzia Aicha Rodolfi, con il suo libro, offre molte risposte.

Certo anche Cinzia potrebbe essere etichettata come “convertita per amore”, giacché la sua scelta è stata conseguente all’innamoramento per un coetaneo tunisino, ma la sua testimonianza prova che, in realtà, il sentimento è stato solo l’occasione d’incontro con una religione che l’ha coinvolta in modo profondo.

La conversione di Cinzia non trova adeguata risposta per molti: era (ed è tuttora!) una ragazza bella, istruita, di famiglia benestante, dotata di indipendenza economica derivante prima da una professione basata sul culto del corpo (modella), poi da un lavoro in cui comunque la bella presenza è fondamentale (accompagnatrice turistica). La sua scelta di abbandonare non solo l’esposizione del corpo, ma addirittura di assumere il velo, che per moltissimi rappresenta la negazione della femminilità, come essa intesa in occidente, risulta incomprensibile ai più. Anche perché il velo non le è stato non solo imposto, ma neppure richiesto dal marito.

Non c’è dubbio, infatti, che di tutti i simboli musulmani, il velo è quello che provoca le reazioni più scomposte: la stessa presenza delle donne velate nel nostro Paese viene monitorata come segno dell’espansione dell’islam, quasi che esse fossero tanti minareti. Forse perché, un tempo, i minareti erano eretti dai musulmani a dimostrazione della loro presenza in zone abitate da altre religioni.

Il velo occupa il centro del discorso tra islam e occidente. Da secoli il velo è per l’islam il

segno di demarcazione tra pubblico e privato, la protezione per la sfera intima e inviolabile: mentre, al contrario, l’occidente vede il velo come il segno della distanza invalicabile tra Est e Ovest. Se nei paesi d’origine il velo è considerato segno di arretratezza e/o di costrizione, il velo delle musulmane che vivono in occidente è spesso interpretato quale simbolo della mancanza di volontà da parte della comunità islamica di “integrarsi”.

Cinzia Aicha ci chiarisce le ragioni per cui ha liberamente adottato il velo, che possono essere comprese oppure no, ma che vanno ascoltate da chi desidera capire. Lei ha scritto questo libro per un’esigenza interiore, non per insegnare, ma soltanto per raccontare il suo percorso.

Certamente, la testimonianza di Cinzia Aicha non rientra nel binomio classico “donna e islam”, che vende molto, poiché basato su testi costruiti per compiacere le aspettative di un certo pubblico occidentale rispetto alle donne musulmane: storie dolorose, di ammissione di errori compiuti, di costrizioni e di maltrattamenti, che certamente esistono, ma che non sono esclusivo appannaggio del mondo islamico, né tantomeno lo caratterizzano. L’immaginario collettivo vuole ancora immagini femminili avvolte in neri ciador iraniani, nei burqa azzurri afghani, o dai volti celati dal niqab. Ma sempre più lettori avvertono la necessità di andare oltre il facile stereotipo propinato da coloro che vogliono “velare” la reale immagine dell’islam.

Questo libro è dedicato a loro.

Anna Vanzan

Prefazione : Cinzia Aicha Rodolfi, Dalle sfilate di moda al velo…una musulmana italiana, Al Hikma, 2012.

Egitto alle urne

Gli egiziani tornano alle urne per il ballottaggio che dovrebbe eleggere il nuovo Presidente della Repubblica in un clima di grande incertezza acuito dal recente scioglimento, da parte della Corte Costituzionale, del Parlamento eletto solo qualche mese fa. Questa manovra, tesa  a disfarsi di un’assemblea “troppo” sbilanciata a favore dei fratelli Musulmani e della compagine islamista più estrema (salafita), conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, che le forze armate non hanno perso l’appetito per il potere, tanto da aver messo in atto questo colpo di stato incompleto. Se vincitore di queste elezioni dovesse risultare Ahmed Shafiq, loro candidato (Shafiq è un ex generale dell’ aeronautica), le forze armate avrebbero il controllo completo, l’ancient regime sarebbe restaurato e la primavera di piazza Tahrir vanificata.

Contro quest’ipotesi si scagliano tanto gli islamisti quanto i laici, ma, in realtà, alla maggioranza degli egiziani non piace né Ahmed Shafiq (e quanto significherebbe la sua elezione), né il suo oppositore, Muhamed Mursi, candidato dei Fratelli Musulmani. uomo privo di carisma e ubbidiente al Partito che diverrebbe  il rappresentante di un Egitto decisamente sbilanciato verso una piena connotazione “religiosa” del Paese.

Tuttavia, molti laici, ma pure la componente Copta, sembrano preferire, tra i due mali, la soluzione Shafiq; ecco perché anche Mursi ha corteggiato i Copti dichiarando la sua disponibilità a farli partecipi del nuovo corso politico egiziano, e perché ha cercato di ammorbidire alcune posizioni dell’ala più conservatrice dei Fratelli in materia di controllo sulla società, parlando della non necessità di imporre il velo alle donne e dimostrandosi più possibilista dei colleghi di partito nell’apertura politica alle minoranze.

E’ pure vero che i Fratelli scontano la cattiva performance post elettorale e il conseguente scontento della popolazione, compresi i loro votanti, i quali s’illudevano, irrealisticamente, in un rapido miglioramento delle condizioni economico-lavorative del Paese. Molti hanno votato i Fratelli conoscendo il loro grande impegno sociale sul territorio, la loro rete di successo volta ad assicurare assistenza sanitaria e scolastica nelle zone disagiate, il loro rapido intervento a favore dei disoccupati e dei più poveri: ma reggere le sorti del Paese è altra cosa, soprattutto se si hanno le forze armate che remano contro. Ricordiamo che l’esercito controlla la risorsa principale del Paese, ovvero l’agricoltura, ma pure molte industrie nonché i lucrosi insediamenti turistici del Mar Rosso.

D’altro canto, per molti è difficile pure dare il voto a Shafiq, ex membro del partito di Mubarak, correo di tante azioni corrotte in compagnia dell’ex faraone e sospettato, tra l’altro, di aver ordito l’attacco delle “truppe cammellate” che hanno picchiato e ucciso alcuni manifestanti in piazza Tahrir nel gennaio 2011. Ecco perché, ad esempio, gli animatori del Movimento del 6 Aprile, uno dei gruppi di giovani egiziani più attivi nella “primavera”, considera piuttosto un’alleanza con i Fratelli Musulmani, qualora vincesse il loro candidato Mursi, ma esclude la possibilità di venire a patti con Shafiq.

Così, gli egiziani vanno alle urne per scegliere tra Scilla e Cariddi, mentre la vera sconfitta, al momento, è la democrazia, assieme ai suoi seguaci. In più, vi è l’incombente pericolo di nuovi e sanguinosi disordini nelle piazze del Paese, qualsiasi sia il verdetto delle urne.

pubblicato da Giornale di Brescia 17/6/2012

l’eredità della guerra dei 6 giorni

Nella ridda di anniversari ed appuntamenti che si rincorrono nel Medio Oriente in questi ultimi mesi è scivolato via quasi totalmente ignorato dall’attenzione internazionale il 45 anniversario della guerra del 6 giorni, combattuta nel giugno 1967 fra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra. La guerra lampo fruttò a Israele cruciali territori strappati ai tre paesi arabi, fra cui le alture del Golan, in Siria, e aprì una fase di crisi profonda nell’area ancor oggi ben lungi dall’essere risolta.

Al di là delle perdite umane e territoriali, comunque ingenti, la cocente sconfitta comportò uno sconvolgimento socio-politico culturale non solo nei tre paesi arabi coinvolti, ma nell’area islamica tutta. Basti pensare che l’evento bellico è comunemente conosciuto come “an-naksa”, la ricaduta, la sconfitta per antonomasia, in quanto lo shock subito per questa rapida e inaspettata vittoria israeliana si è scolpito per sempre nella memoria storica dei paesi musulmani.

L’Egitto è forse il Paese che più ha scontato, alla lunga scadenza, tale sconfitta: l’Egitto doveva assicurare alla coalizione militare l’impatto della sua formidabile forza aerea, che venne invece annientata dalle forze israeliane già nel primo giorno del conflitto, il 5 giugno 1967. La guerra continuò rapida e impietosa per gli alleati arabi, e già l’8 giugno, per evitare che gli israeliani prendessero pure il controllo sul Canale di Suez, il leader egiziano Nasser dovette accettare la pace imposta dall’ONU e le successive condizioni dei vincitori.

Il 10 giugno, era già tutto finito. Nasser era stato umiliato, e con lui l’intero Paese. Nasser poi presentò le proprie dimissioni, peraltro respinte, ma ormai s’era infranto il sogno dell’intraprendente politico, il suo progetto di pan-arabismo sotto la propria leadership, e, soprattutto, l’idea di uno stato laico vincente. La sconfitta del 1967 ha provocato la sfiducia collettiva nello stato laico, nelle sua declinazione socialista dimostratasi incapace di fronteggiare il nemico, aprendo la strada ad una sempre maggior influenza dei nuovi gruppi islamisti. L’anno precedente la catastrofe, nel 1966, Nasser aveva fatto giustiziare Sayyd Qutb, padre fondatore dei Fratelli Musulmani: la sconfitta da parte di Israele venne quindi interpretata da molti come conseguenza di una deviazione dalla via “religiosa”, ritenuta l’unica possibile per lo sviluppo di un paese ad alata concentrazione musulmana. Molti nazionalisti disillusi abbandonarono le loro convinzioni per abbracciare un “islam politico” le cui derive estremiste minacciano ancor oggi l’incolumità mondiale, in primis quella degli stessi musulmani, principali vittime del terrorismo islamista internazionale. E’ nell’Egitto post 1967, infatti, che ha cominciato la sua opera di predicazione jihadista un allora giovanissimo al-Zawahri, poi fuggito in Asia Centrale dove partecipa al progetto della neonato al-Qaeda.

L’eredità di quei 6 giorni del giugno 1967 è altresì rappresentata dalla massa di sfollati palestinesi che sono ancora rimasti tali; dai territori occupati in Palestina e Giordania; dall’isolamento di Israele e dalla tensione in tutta l’area.

La memoria della guerra dei 6 giorni è presente in molta letteratura in lingua araba, nella cinematografia mediorientale, ma è anche spesso sfruttata da regimi illiberali che con il pretesto di difendere la causa palestinese, cercano di deviare l’attenzione dei propri concittadini dai problemi interni. La guerra dei 6 giorni non può essere cancellata, ma la questione palestinese deve tornare alla ribalta dell’agenda internazionale, ora distratta su altri fronti, perché da ciò dipende la sicurezza di noi tutti.

 pubblicato da Giornale di Brescia, 14/6/2012