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US e Iran a Vienna

Il 24 novembre si conclude un ciclo durato due anni e mezzo di colloqui tra l’Iran e le maggiori potenze occidentali volti ad impedire che il paese mediorientale si doti di centrali nucleari in grado di produrre armi letali. I negoziati sono stati impostati su un meccanismo di do ut des, ovvero, alla riduzione delle centrifughe corrisponderà un allentamento delle sanzioni che attanagliano l’Iran da decadi, ma rafforzate proprio da quando sono iniziati i colloqui. I media statunitensi controllati dai poteri che non vogliono l’accordo con l’Iran sostengono che degli iraniani non ci si possa fidare, in quanto “geneticamente bugiardi e infidi” come ebbe a dichiarare la Sottosegretaria di Stato Wendy Sherman. In realtà, mentre da parte iraniana c’è stata una riduzione della produzione nucleare, le sanzioni non sono state allentate, se non in modo risibile. Certo nei negozi iraniani ora si trova la Coca Cola originale o la panatura per un autentico Kentucky Fried Chicken, ma nelle farmacie non ci sono medicine di produzione internazionale se non quelle provenienti da Cina, Russia e India. E pertanto tra gli iraniani la diffidenza nei confronti degli statunitensi non si è affievolita, anzi. Precisiamo innanzitutto che, nonostante siano sei le potenze che costituiscono la controparte iraniana, tanto a Washington quanto a Tehran il negoziato sul nucleare è percepito come una sfida a due. In Iran l’inimicizia con gli Stati Uniti continua a essere alimentata da vari fattori. Da un lato, dagli oltranzisti: quella che è rimasta emblema del tracollo dei rapporti tra i due paesi, ovvero l’ex ambasciata US a Tehran, ora ospita una caserma delle Guardie Rivoluzionarie che mantengono fresche di pittura le scritte sui muri esterni inneggianti l’ostilità con Washington. I murales riflettono la precisa posizione politica di una parte dell’establishment iraniano. Dall’altra, la gente comune: indossare sneakers di marca americana taroccate a Taiwan e magari sognare di emigrare negli US non vuol dire disconoscere l’ambiguità di Washington nei rapporti con i paesi mediorientali, soprattutto con l’Iran. La società civile iraniana rimprovera agli Stati Uniti soprattutto la reiterata politica di isolarla pubblicizzando il loro Paese come covo del terrorismo. Con la scusa di voler colpire la dirigenza, gli Stati Uniti hanno forgiato l’Iran nell’immaginario internazionale quale emblema del male assoluto. L’opinione pubblica guarda con cinismo ai negoziati: molti ritengono che, comunque vada, le sanzioni continueranno sì a rendere loro l’esistenza difficile, ma non bloccheranno la vita della nazione. Da paesi sanzionanti le merci continuano ad arrivare, sia pure con costose transazioni tramite la Turchia e Dubai, e quelli amici (Russia, India e Cina) comperano prodotti iraniani e vendono i propri senza problemi. Con l’arrivo alla Presidenza di Hassan Rouhani il tasso d’inflazione si è notevolmente abbassato e quello del cambio di valuta stabilizzato. La nuova dirigenza sta favorendo il turismo internazionale, che ha risposto assai bene incrementando le casse dello stato.

Si firmerà l’accordo a Vienna? La pace e la stabilità in Medio Oriente e nel mondo sperano di sì.

 

Da Giornale di Brescia, 22/11/2014

Iran indispensabile per sconfiggere IS

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Come al solito, anche quest’ennesimo giro di consultazioni sul nucleare iraniano conclusosi a Vienna in settimana lascia spazio ai commenti più disparati; si va dal cauto ottimismo ufficiale statunitense, alle perplessità britanniche, alla fiducia degli iraniani che si giungerà a un accordo prima della fatidica scadenza del 24 novembre.

Sul tema del nucleare sembra però essere calata una sorta di distrazione, essendo gli occhi di tutti fissati sul caos nella regione mediorientale in cui proprio l’Iran occupa un posto cruciale. La possibile risoluzione contro la minaccia dello Stato Islamico (IS), però, potrebbe scaturire proprio da un accordo sul nucleare, come hanno chiaramente fatto capire tanto il Presidente iraniano Rouhani quanto il suo ministro degli esteri Zarif, i quali hanno prospettato un attivo intervento anti IS da parte di Tehran qualora si giunga a una soluzione per loro accettabile sulle centrifughe dell’altopiano.

Che Tehran voglia impegnarsi nell’eliminare la piaga dell’IS è indiscutibile, tant’è che ha affrontato l’argomento con i nemici di sempre, i sauditi, cercando un’intesa comune per risolvere il marasma nell’area; e ciò nonostante l’IS sia anche figlio della politica saudita tesa a combattere gli sciiti e indebolire l’Iran sullo scacchiere mediorientale e internazionale.

I sauditi sono partner inaffidabili, sempre pronti a combattere l’affermazione politica degli sciiti, sia essa democraticamente acquisita (come in Iraq) o grazie alle armi, come accade in Yemen dove i miliziani sciiti Houthi si stanno allargando.

Anche Ankara, per vari motivi, non sembra seriamente intenzionata a combattere attivamente l’IS, per cui l’Iran si sta guardando intorno, cercando alleanze con le altre monarchie arabe del Golfo.

Un’ulteriore affermazione dell’Is in Iraq significherebbe per Tehran perdere uno dei maggiori partner commerciali, nonché la zona di installo di un grandioso gasdotto che in futuro dovrebbe trasportare il combustibile iraniano verso ovest. Oltre alla possibile perdita economica, vi è quella storico-simbolica: l’IS minaccia i luoghi santi degli sciiti, i più importanti dei quali si trovano in territorio iracheno. Ma, al momento, l’Iran non si è seriamente impegnato militarmente: l’unica presenza bellica iraniana in Iraq è costituita dalla brigata Al Qods, un contingente di circa 5mila uomini solitamente impiegato per l’addestramento. Piuttosto, Tehran ha per prima fornito armi al governo del Kurdistan, fatto, questo, non scontato, dal momento che l’Iran è da sempre un paese multietnico dove, fra i diversi gruppi che periodicamente insorgono richiedendo spazi di autonomia, i curdi rappresentano la comunità più bellicosa. Si tratta di uno scambio fruttuoso, ma non privo di possibili pericoli futuri per Tehran.

Il pragmatismo della Repubblica Islamica si è già rivelato in occasione della rimozione del primo ministro iracheno Maliki, un tempo caro alle autorità iraniane, ma poi dalle stesse sacrificato in quanto reo di aver agevolato, con il suo eccessivo settarismo, il malcontento nella minoranza sunnita irachena e la crescita del movimento d’opposizione confluito nell’IS.

Ecco perché un’alleanza non scritta tra Iran e gli Stati Uniti in funzione anti IS è possibile: ma perché essa non provochi poi malumori nel mondo arabo-sunnita, quest’ultimo deve necessariamente esserne coinvolto.

 

da Giornale di Brescia 19/10/2014

le “altre” donne dell’ IS

 

Nell’unanime condanna delle azioni e della stessa esistenza del sedicente Stato Islamico (IS) occupa un posto rilevante il biasimo generale per il modo barbaro con cui i suoi adepti trattano le donne, considerate trofei da schiavizzare, stuprare e uccidere a piacimento. Destano quindi ancora più stupore, e sgomento, le notizie che riportano come un cospicuo numero di donne provenienti, tanto da paesi Europei quanto dal Medio Oriente allargato siano, anziché vittime dell’IS, loro complici. Dopo un periodo in cui gli uomini dell’IS sembravano aver preso le distanze dal genere femminile tutto, ora essi incoraggiano le donne a unirsi a loro per svolgere varie mansioni, che vanno dalla raccolta d’informazioni al servizio di sussistenza, dalla preparazione del cibo alla condivisione sessuale. Alcune sono impiegate come vigilesse, col compito di controllare che tutte rispettino le leggi di abbigliamento e di condotta “islamiche” (leggi, dell’IS). Tutte sono attirate da una campagna mediatica che promette loro di poter vivere in un vero stato “islamico” accanto a un marito jihadista. Il numero esatto di donne che hanno aderito alle armate del terrore in Siria e Iraq è Impossibile da accertare, ma spiccano le almeno 30 europee ivi stanziate che hanno accompagnato i loro mariti jihadisti o vi si sono recate con l’intenzione di sposarne uno. E il numero pare destinato a crescere. Negli aeroporti francesi sono state arrestate anche minorenni pronte a imbarcarsi per la Siria col sospetto che volessero unirsi all’IS. L’IS è interessato a reclutare occidentali, donne comprese, come parte della sua strategia di espansione internazionale: ma cosa spinge le donne a unirsi a individui che violano i più elementari diritti umani, compresi quelli della legge islamica cui essi proclamano di aderire? In questo contesto le donne si rivelano, ancora una volta, non tutte innocenti, anzi, persecutrici delle altre, riunite in una brigata creata ad hoc, la al-Khansa, col compito di assoldare mogli per uomini che praticano la violenza sulle donne come costume quotidiano. Le propagandiste della brigata hanno preparato linee guida per le aspiranti jihadiste su siti in cui versi coranici si alternano a foto di Osama bin Laden, uno degli ispiratori del gruppo.

Troppo semplice ipotizzare, come già è stato sbrigativamente fatto, che si tratti di donne insicure che trovano nel gruppo un senso d’appartenenza, anche religiosa. Così com’è superficiale e inefficace liquidare l’IS quale gruppo di sanguinari dediti alle decapitazioni e ai massacri, guidati da furore “religioso” e odio nei confronti dell’occidente, senza invece tener conto della forza politica che lo anima e della capillare struttura che si è costruito. La duttilità del’IS e la sua pericolosità si dimostrano proprio nei confronti delle donne, rifiutate all’inizio come figure demoniache, poi cooptate nel progetto di costruzione di uno stato in cui la violenza contro di esse è uno dei cardini principali.

La mappa della provenienza delle jihadiste rivela che in maggioranza arrivano da Francia e Tunisia, due stati simbolo dell’emancipazione femminile, uno laico e occidentale, l’altro religioso-musulmano che vanta tuttavia leggi fra le più progressiste nei confronti delle donne del mondo islamico. Eppure, se i valori femministi della laicitè francese sono rigettati dalle giovani aspiranti jihadiste, in Tunisia, Paese che per primo ha adottato come legge di stato i principi coranici favorevoli alle donne, le madri guadano sgomente le figlie partire per divenire protagoniste del jihad al-nikah, il jihad sessuale.

Tutti noi, donne comprese, dobbiamo quindi assumere nuovi sguardi e nuovi parametri per cercare di capire le radici profonde e articolate di un fenomeno che, per potere essere efficacemente combattuto, richiede strumenti e approcci diversi da quelli finora adottati.

 

da Giornale di Brescia 28/9/2014

 

 

 

La crisi in Iraq

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Siria e Iraq: due entità prossime alla disgregazione, preda di devastanti guerre interne fra gruppi che si fronteggiano sotto opposte bandiere religiose che in realtà rappresentano interessi politici ed economici precisi. Su tutti pare primeggiare il neonato gruppo jihadista dapprima denominatosi Stato Islamico per l’Iraq e la Siria (ISIS) ma che ora, visto il suo successo quasi insperato (poche migliaia di uomini sono riusciti a conquistare mezzo Iraq e i territori siriani confinanti) si è proclamato Stato Islamico tout court, affermando di voler sottomettere l’intero mondo musulmano. La rapida avanzata dell’ISIS preoccupa l’Iran, per il quale il confinante Iraq al momento governato dallo sciita al-Maliki rappresenta un alleato importante: basti pensare che lo scambio commerciale fra i due Paesi nello scorso anno ha toccato i 12 miliardi di dollari, cifra che le rispettive autorità contavano di raddoppiare nel 2014. Per l’Iran, l’Iraq ha altresì un valore simbolico, in quanto sul suo territorio sono disseminati i santuari più importanti per il culto sciita, tant’è che Tehran s’è affrettata a inviare truppe scelte proprio a proteggerli.

Anche gli Stati Uniti valutano un intervento militare, ma, in realtà, ciò che è di primaria importanza è avviare un’immediata azione politica. Innanzitutto rimuovendo al-Maliki, beniamino tanto di Tehran quanto di Washington, che rappresenta però la causa principale del successo dell’ISIS in Iraq, dove i sunniti maltrattati dalla politica partigiana del primo ministro hanno spalancato le porte, alcuni addirittura gettando la divisa militare nazionale per vestire la lugubre uniforme dei guerriglieri islamici. Tra l’altro, al-Maliki è inviso agli stessi sciiti iracheni, soprattutto ai leader religiosi del movimento, quali il grande ayatollah al-Sistani (massima carica sciita nel Paese) e addirittura Muqtada al-Sadr, il religioso a capo di un proprio gruppo armato, che un tempo fu sostenitore di al Maliki. Tanto al-Sistani quanto al-Sadr hanno ripetutamente sconfessato al-Maliki e la sua politica di marginalizzazione nei confronti dei sunniti, che ha procurato solo ripetuti atti di terrorismo nei confronti degli sciiti, e hanno invocato un nuovo gabinetto. Anche Nechirvan Barzani, capo del governo regionale del Kurdistan, si è espresso in questo senso, dichiarando che i curdi non nutrono alcuna fiducia nei confronti di al-Maliki.

La soluzione politica, però, richiede l’accordo tra Iran e Stati Uniti, che hanno da poco ricominciato a parlarsi, ma fra i quali esiste tutt’ora una sfiducia di base; tanto che il Segretario di Stato Americano John Perry continua a cercare alleati anti crisi a Riyadh, dimenticando, tra l’altro, che i sauditi non sono senza colpe nella formazione di gruppi jihadisti che costantemente minacciano gli equilibri in Medio Oriente e oltre.

Su un punto Washington e Tehran convergono, seppure per ragioni differenti, ovvero sull’intenzione di lasciare Assad al posto di comando: l’Iran perché considera il dittatore di Damasco un alleato irrinunciabile, gli Stati Uniti perché pensano che un governante che da anni sistematicamente bombarda e gasa i propri concittadini rappresenti il male minore. Eppure i militanti dell’ISIS sono nati in Siria come prodotto conseguente alla sconsiderata politica di Assad, e di ciò tutti, tanto in Occidente quanto in Medio Oriente, dovrebbero tenere immediato conto.

Giornale di Brescia 7/7/2014

Ciador art: neo Orientalismo e repressione

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Iranian contemporary art is renown and appreciated by the international art venues where it has been introduced by Shirin Neshat’s performances and photos of veiled women covered by Persian-Arabic calligraphy. 
This exotic aspect is highly coveted by the global art markets, while in Iran many criticize this neo  Orientalistic approach by calling it “ciador art”, as the veil is its main protagonist. Critics maintain that the West interest in an art characterized by ethnic alterity and burden with issues of sexual inequality penalizes the developing of a universal language among the contemporary Iranian artists. 
This paper explores the ethnic and gender boundaries in which Western market confines Iranian contemporary art and the way in which the Western discourse is colonizing Iranian artists.(Mondi Migranti, giugno 2014)

Iraq e lotta per la leadership nell’area

Unrest in Iraq

La conquista di Mosul e di Tikrit da parte delle forze dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) conferma che la sigla non raccoglie vari gruppi di estremisti disorganizzati e senza un piano, ma costituisce un vero e proprio esercito in grado di impadronirsi della seconda città dell’Iraq, impossessandosi di ingenti risorse (si parla di centinaia di milioni di dollari rubati alle banche locali) e costituendo una preoccupante sfida non solo al governo di Baghdad, ma all’intera area.

Che non si potesse contare sul debole e corrotto governo di Maliki era notorio: tra le varie colpe del premier va annotata pure la trasformazione della forza di sicurezza nazionale in un corpo di polizia personale volto a controllare e reprimere i suoi nemici politici anziché difendere il Paese. Resta da capire, però, come abbiano fatto migliaia di uomini a trasferirsi dalla Siria senza essere intercettati, ad arruolare quegli iracheni (perlopiù sunniti, molti dei quali appartenenti alla vecchia guardia di Saddam) colpiti dalla politica settaria e corrotta di Maliki e a diventare una minaccia per la regione.

Il governo iraniano, in particolare, è preoccupato per questo rafforzamento di un’enclave jihadista/sunnita in Iraq e dalla minaccia dell’ISIS di colpire i santuari sciiti di Najaf e Karbala. A Tehran, però, i toni sono assai più cauti che in passato, soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, da sempre accusata di essere il principale finanziatore dell’ISIS, ma con la quale ultimamente c’è un stato un riavvicinamento diplomatico. Nel web circolano i commenti del capo delle forze rivoluzionarie iraniane, Ghassem Suleimani, il quale promette aiuto e protezione ai correligionari sciiti iracheni e ai loro luoghi sacri, ma un consistente impegno militare iraniano appare quanto mai improbabile, giacché il teatro di guerra siriano drena da tempo ingenti risorse militari e finanziarie. Di certo, la piega che stanno prendendo gli eventi iracheni comporta un serio indebolimento delle aspirazioni iraniane alla leadership nell’area, e marca l’apparente vittoria dell’Arabia Saudita, principale rivale dell’Iran.

Neppure i sauditi, però, possono essere contenti di questa affermazione del fronte jihadista, anche se ne hanno abbondantemente finanziato alcuni gruppi, fintanto che questi rimanevano in Siria a fare da barriera anti-Iran. Ora però che gli islamisti militanti si sono aggregati sotto la bandiera dell’ISIS e perseguono un stato che contrasta e sfida le pretese saudite di rappresentare l’unica e legittima autorità del mondo islamico, i sauditi cercano di prenderne le distanze.

Totalmente sconfitti appaiono gli Stati Uniti, che raccolgono l’ennesimo fiasco dopo una lunga e costosa operazione di “democratizzazione” in Medio Oriente, con conseguente pericolo per la sicurezza del Golfo e il transito del petrolio.

Il principale perdente, comunque, è la società civile irachena che ripiomba nel caos dopo oltre un decennio di enormi difficoltà e pochi vantaggi ricevuti nel post Saddam, sacrificata dalle mire egemoniche delle potenze confinanti. Un intervento diplomatico appare pressoché impossibile, anche perché l’ISIS è perlopiù animato da combattenti interessati solo alla opzione militare, fino alla morte. Una posizione estrema che, paradossalmente, potrebbe provocare la sua implosione.

da Giornale di Brescia, 13/6/2014

Donne velate, piscina e corruzione

wecandoittoobytuffix-d5efu7fNelle scorse settimane, la piscina comunale di Venezia-Mestre ha varato un esperimento: per consentire alle donne che portano il velo di accedere alla struttura, hanno riservato a loro (e a tutte le altre, pure con i bambini) l’ingresso per  un paio d’ore, quattro domeniche consecutive. Apriti cielo: i paladini della modernità, anti oscurantismo, difensori delle donne (?!) e bla bla bla hanno picchettato l’ingresso alla piscina, chiamato in causa le autorità comunali, costretto la polizia anti sommossa all’intervento. Il governatore della Regione, Zaia, ha parlato di inacettabile processo di islamizzazione iniziato con le polemiche sul crocefisso in classe (la cui rimozione, peraltro, era stata chiesta da una donna atea d’origine filandese). Insomma, un putiferio. Capisco: le donne con il velo sono un elemento destabilizzante, inquietano, spingono la gente a prendere posizione, a scendere in piazza. E’ un problema grave, altro che l’ennesimo scandalo per corruzione di cui si sono resi colpevoli i più alti gradi dell’amministrazione locale, sindaci, governatori ecc. Per lo scandalo del Mose nessuno scenderà in piazza: per le donne velate in piscina, sì.