Delitti commessi da musulmani in Italia: ci ricadiamo sempre….

La notizia del marocchino che ha ucciso la moglie a Padova è terribile. Ma anche quella dell’italiana del Bergamasco che ha assoldato due killer per ammazzare il marito; o quella del ragazzo di Roma che ha massacrato la nonna dell’ex fidanzata, ecc…. eppure i commenti sul web (e non solo) parlano di conflitto di civiltà”, di “superiorità della nostra cultura rispetto a quella musulmana”, di “incompatibilità tra noi e loro”. C’è chi invita le ragazze musulmane a leggere il libro di qualche musulmana che ha avuto il coraggio di denunciare le violenze della religione islamica , tipo Hirsi Ali o di qualche altra furbacchiona che si è costruita la carriera giocando sull’odio per l’Altro… ma riusciremo mai, noi “italiani doc” ad accettare l’Altro? Intendo, non gli inglesi che comperano le tenute in Toscana, ma i disperati che scappano da guerre e terrore; non aspiranti attricette sudamericane che posano seminude sui rotocalchi, ma le ragazze velate che vogliono andare a scuola con le coetanee; non i mafiosi d’ogni nazionalità che vengono qui a concordare atti illeciti con i mafiosi nostrani, ma tutti coloro che arrivano in Italia anche accettando umili lavori e che magari sognano che i loro figli possano, un giorno, essere “veri” italiani.
Per nessuno degli efferati delitti compiuti in questi ultimi anni da cittadini italiani qualcuno s’azzarda a invocare motivi d’ordine culturale o religioso, né di classificarli quali “atti di inciviltà italiana”.
I delitti sono tutti esecrabili, cari Italiani. E cari Altri.

Il Fondo Monetario Internazionale e l’Iran

Ho letto e riletto più volte il rapporto del Fondo Monetario internazionale (FMI) recentemente stilato sulla situazione della Repubblica Islamica d’Iran, direttamente dal sito FMI: http://www.imf.org/external/np/sec/pr/2011/pr11228.htm.

Gli ispettori del FMI, in visita sull’altipiano da fine maggio ai primi di giugno, hanno riscontrato una situazione idilliaca, giungendo a lodare le autorità iraniane per i successi conseguiti grazie alla cancellazione dei sussidi statali, che hanno fruttato alle casse dell’erario parecchi milioni di dollari e hanno pure fatto ridurre gli sprechi energetici prima all’ordine del giorno nelle famiglie iraniane. Il FMI si è pure sperticato in complimenti per l’establishment locale che ha contribuito a calmierare l’inflazione. Alla fine la missione “ringrazia le autorità iraniane per la loro ospitalità, nonché per la discussione aperta e costruttiva intercorsa”.

Che bellezza. Però il rapporto rema contro tutto quanto detto e scritto da paludati organismi internazionali negli ultimi mesi. Qualcuno sa spiegarmi dov’è l’inghippo?

La squadra di calcio femminile iraniana: hejab e ipocrisia

Con un po’ di ritardo intervengo sulla questione del bando della squadra femminile iraniana dal partecipare alle finali della coppa del mondo: le iraniane, già qualificate, sono state escluse perché giocano col capo e il collo coperti, chiaro “segno religioso” bandito dalla FIFA. Al giubilo col quale molti, comprese sedicenti femministe di varie nazionalità, sparsi nel globo, stanno salutando quella che leggono come una “punizione” per la Repubblica Islamica d’Iran (?), vorrei contrapporre alcuni fatti:

1) nessuno mette in discussione che le donne iraniane siano oggetto di pesanti discriminazioni nel loro paese. Ma privare loro della possibilità di esibirsi a livello mondiale in una specialità sportiva è una punizione contro loro stesse, non contro il loro governo. E così, ancora una volta le iraniane vengono doppiamente discriminate e punite;

2) le iraniane sono state squalificate perché indossano un simbolo religioso. Però non ho mai sentito che un giocatore di calcio sia stato escluso perché si fa il segno della croce entrando in campo o uscendone, gesto che si consuma in continuazione nei campi internazionali. per non parlar di quei giocatori che portano la croce al collo, o addirittura tatuata sul corpo. Ma, evidentemente, per i maschi le regole della FIFA non valgono;

3) le iraniane dovrebbero essere contente di essere state escluse dalla competizione, visto che la FIFA punisce il velo reso obbligatorio dal governo iraniano. Ma allora perché le foto che stanno girando su moltissimi siti dopo l’esclusione le ritraggono piangenti  sulla loro bandiera nazionale?

4) se proprio vogliamo aiutare le donne d’Iran, dovremmo riconoscere l’ incredibile tenacia con la quale lottano per poter praticare ogni tipo di sport, calcio compreso, con ottimi risultati internazionali (a proposito, che ne è della squadra femminile italiana?) e aiutarle a rimanere sulla ribalta internazionale anziché confinarle nel loro paese;

5) se bandire le iraniane significa spezzare una lancia per la democrazia, qualcuno mi dovrebbe spiegare perché si è già deciso che i mondiali di calcio (maschili) del 2022 verranno disputati in quel paradiso della democrazia che è il Qatar… ricordo, per chi l’avesse dimenticato, che il Qatar (fra l’altro) ha mandato e proprie truppe in Bahrein per “sedare la rivolta”, ovvero, per massacrare i cittadini che chiedono democrazia e libertà basilari. E che Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, le cui cittadine sono esposte a quotidiane vessazioni (le saudite non possono neppure guidare, figuriamoci giocare a calcio!) hanno loro rappresentanti nella FIFA, che si sono ben guardati ad intervenire a favore delle “sorelle” iraniane velate. Ovviamente, nessuno pensa ad escludere questi paesi dalla FIFA. La pecunia del Golfo non olet, mai.

 

Di nuovo Erdogan

La Turchia torna a votare e tutto sembra indicare una nuova schiacciante vittoria del partito al governo, l’AKP di Recep Erdoĝan: alcune proiezioni davano il partito attorno al 50%, ma la recente apparizione in internet di un video immortalante gli incontri di alcuni membri dell’ultranazionalista partito Milliyetçi Hareket Partisi (MHP) con giovanissime prostitute potrebbero rubare i voti al MHP facendo salire ulteriormente le quotazioni dell’AKP.

Il partito al governo si avvale molto del carisma personale di Erdoĝan, che riscuote anche l’approvazione di quei turchi che, pur non votandolo, apprezzano il lavoro da lui svolto durante questi otto anni. Il premierato di Erdoĝan ha riportato diversi successi, interni ed esterni: un notevole abbattimento dell’inflazione, un più diffuso benessere tra tutta la popolazione, ampi spiragli di composizione delle diatribe etnico- religiose, e, soprattutto, un’affermazione perentoria del prestigio della Turchia sul piano internazionale. Certamente la disoccupazione giovanile continua ad essere motivo di grave malcontento, per non parlare dei non completamente sedati dissidi con la minoritaria componente curda. Ma è soprattutto sul piano internazionale che Recep Erdoĝan ha vinto una cruciale partita, riportando il suo Paese ai fasti della diplomazia ottomana: molti dei paesi arabi guardano ad Ankara come modello da imitare per il suo sapiente equilibrio tra modernità e tradizione, ovvero per la salvaguardia dei costumi islamici e la spinta verso democrazia e modernizzazione. Un’inchiesta condotta nello scorso aprile dal Pew Research Center’s Global Attitudes Project (PRCGP) mostra, ad esempio, come la stragrande maggioranza degli egiziani nutra piena fiducia nell’opera dell’AKP, sentimento condiviso anche dai giordani (ricordiamo che la Turchia si è eretta quale difensore dei diritti dei palestinesi, molti dei quali risiedono proprio in Giordania) e dai pakistani (ampiamente aiutati da Ankara durante le terribili inondazioni del 2010). In questi anni Erdoĝan ha tessuto accordi politico-commerciali con i più importanti paesi asiatici, perfino con il nemico di sempre, l’Iran, e al contempo ha continuato a tendere la mano verso l’Europa. Ma qui, sempre secondo l’inchiesta del PRCGP, si annidano diversi “turcoscettici” che non si lasciano ammaliare dai completi giacca-cravatta del primo ministro turco e non vogliono ammettere Ankara all’affollato tavolo di Bruxelles. Erdoĝan, peraltro, continua imperterrito a porsi come interlocutore nelle situazioni che l’Europa non riesce a sbrogliare, quali il nucleare iraniano (la Turchia è stata sede di incontri tra Iran e la commissione internazionale per l’energia atomica) fino a giungere alla recentissima offerta di garantire al colonnello Gheddafi una uscita protetta dal suo paese con conseguente fine delle guerra che lo sta insanguinando. Un brillante colpo di coda rivelante l’inesauribile energia nel tessere trame internazionali del primo ministro turco e destinato a spiazzare pure quei suoi oppositori che in questi ultimi giorni di campagna elettorale si sono dati da fare per sottolineare il suo aspetto affaticato ed invecchiato. Certo Erdoĝan ha sottolineato più volte come questa sia l’ultima tornata elettorale che intende affrontare, ma i più cinici affermano che, dopo quest’ultimo premierato, egli punterebbe a divenire presidente della repubblica turca. Un compito non certo impossibile per un uomo che riscuote un successo personale paragonabile solo al suo antesignano rivale, il mitico Kemal Atatürk, e che, se riuscisse a porre fine al pantano libico, accrescerebbe le credenziali per un’entrata in Europa del suo Paese.

Scandalo a sfondo sessuale travolge il Partito Nazionalista turco

Gli scandali politico-sessuali sono di moda anche in Turchia, dove, recentemente, alcuni alcuni politici appartenenti all’ultranazionalista partito Milliyetçi Hareket Partisi (MHP) sono stati colti da una telecamera nascosta mentre si intrattenevano con prostitute minorenni. Lo scandalo rischia di travolgere il MHP a pochi giorni dalle elezioni (12 giugno): nella scorsa tornata, il MHP aveva raggiunto il 14.3% delle preferenze, ma l’ondata di sdegno fra i suoi sostenitori mette in pericolo la sua permanenza in parlamento, dove si entra solo raggiungendo il 10% dei voti. Se il MHP non dovesse farcela, i suoi voti andrebbero distribuiti fra gli altri partiti, e quindi, per ironia della sorte, andrebbero a beneficiare il partito nemico per eccellenza, ovvero quello del premier Erdogan (AKP).

Lo scandalo sessuale, comunque, s’aggiunge all’inchiesta in corso su autorevoli membri del MHP accusati di aver complottato a favore di un ennesimo colpo di stato (il caso Ergenekon). Fra pochi giorni sapremo se e quanto per i Turchi la condotta morale del loro politicanti abbia peso.

Afghanistan: che fare?

Pubblicato nel Giornale di Brescia del 1 giugno 2011

 

Gli attacchi ai nostri soldati stanziati in Afghanistan giungono puntuali a ricordarci quanto il travagliato Paese centrasiatico sia lontano dalla normalizzazione, nonostante dieci anni di ingenti sforzi, militari, economici e politici profusi tanto dalle forze internazionali quanto dalla società civile afgana.

Sia il parziale fallimento delle elezioni politiche del settembre 2010 (che, si ricorderà, sono state inficiate da pesanti brogli e da una situazione di spiccata insicurezza per candidati e votanti), sia i periodici bollettini di attentati alle forze ISAF o alla popolazione civile confermano una situazione incertissima e pericolosa, ben lontana da quanto auspicato nell’ottimistico rapporto curato dalla Casa Bianca nel dicembre scorso, con il quale, pur lamentando le continue ingenti perdite umane (nel 2010 gli attacchi alle forze internazionali sono aumentate del 70% rispetto all’anno precedente!) individuava nel luglio 2011 l’inizio della fase di transizione che dovrebbe condurre ad un lento ma inesorabile ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

Anche il piano di riconciliazione nazionale lanciato dal governo Karzai procede lentissimo, se non altro perché la sua proposta (peraltro appoggiata da una parte del governo americano) di sedersi al tavolo delle trattative con alcuni dei Taleban “buoni” ha scatenato una accesissima polemica sopratutto fra la popolazione civile afgana, terrorizzata all’idea di un ritorno legalizzato dei sedicenti studiosi di Corano. Eppure, vi è una parte degli afgani che, pur desiderando pace e stabilità, vuoi a causa della mancata pacificazione della loro patria vuoi per la sempre lampante corruzione che inficia l’amministrazione afgana, insediata anche con il beneplacito internazionale, per non parlare dell’alto numero di vittime civili provocate “per errore” dalle forze internazionali, si è progressivamente distaccata da queste ultime, e ammicca ai vecchi gestori col turbante. Tant’è che questi ultimi sono stati in grado di formare governi ombra in moltissime province afgane, dalle quali controllano il Paese e sono in grado di organizzare e lanciare attacchi contro le forze ISAF. Molta della baldanza dei Taleban deriva dai proventi, sempre consistenti, dell’oppio: il 96% della produzione della preziosa sostanza proviene dalle province meridionali e occidentali, dove la presenza talebana è più forte (ma anche nel nord la loro avanzata pare, secondo recenti rilevazioni, purtroppo inesorabile). E l’oppio continua a costituire il 20-25% del PIL afgano: quest’ultimo, peraltro, è aumentato del 15% negli ultimi anni, ma la sua dipendenza dalla coltivazione del papavero e dagli aiuti internazionali fa sì che, di fatto, la situazione economica dell’Afghanistan non si possa certo definire rosea.

Un grosso incentivo allo sviluppo del Paese potrebbe essere costituito dalla costruzione di un oleodotto capace di trasportare il gas turkmeno fino in India e in Pakistan. L’accordo recentemente siglato, prevede la costruzione di un impianto snodantesi per circa 1700 km lungo il territorio afgano: va da sé che, senza condizioni di sicurezza, il faraonico progetto è destinato ad arenarsi presto.

Le forze internazionali si trovano quindi davanti ad una decisione quanto mai difficile: rimanere è d’obbligo, visto che il lavoro da fare è immane. Ma il prezzo da pagare sembra ancora altissimo, sia da parte della coalizione internazionale, sia da parte degli afghani innocenti.