Afghanistan: che fare?

Pubblicato nel Giornale di Brescia del 1 giugno 2011

 

Gli attacchi ai nostri soldati stanziati in Afghanistan giungono puntuali a ricordarci quanto il travagliato Paese centrasiatico sia lontano dalla normalizzazione, nonostante dieci anni di ingenti sforzi, militari, economici e politici profusi tanto dalle forze internazionali quanto dalla società civile afgana.

Sia il parziale fallimento delle elezioni politiche del settembre 2010 (che, si ricorderà, sono state inficiate da pesanti brogli e da una situazione di spiccata insicurezza per candidati e votanti), sia i periodici bollettini di attentati alle forze ISAF o alla popolazione civile confermano una situazione incertissima e pericolosa, ben lontana da quanto auspicato nell’ottimistico rapporto curato dalla Casa Bianca nel dicembre scorso, con il quale, pur lamentando le continue ingenti perdite umane (nel 2010 gli attacchi alle forze internazionali sono aumentate del 70% rispetto all’anno precedente!) individuava nel luglio 2011 l’inizio della fase di transizione che dovrebbe condurre ad un lento ma inesorabile ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

Anche il piano di riconciliazione nazionale lanciato dal governo Karzai procede lentissimo, se non altro perché la sua proposta (peraltro appoggiata da una parte del governo americano) di sedersi al tavolo delle trattative con alcuni dei Taleban “buoni” ha scatenato una accesissima polemica sopratutto fra la popolazione civile afgana, terrorizzata all’idea di un ritorno legalizzato dei sedicenti studiosi di Corano. Eppure, vi è una parte degli afgani che, pur desiderando pace e stabilità, vuoi a causa della mancata pacificazione della loro patria vuoi per la sempre lampante corruzione che inficia l’amministrazione afgana, insediata anche con il beneplacito internazionale, per non parlare dell’alto numero di vittime civili provocate “per errore” dalle forze internazionali, si è progressivamente distaccata da queste ultime, e ammicca ai vecchi gestori col turbante. Tant’è che questi ultimi sono stati in grado di formare governi ombra in moltissime province afgane, dalle quali controllano il Paese e sono in grado di organizzare e lanciare attacchi contro le forze ISAF. Molta della baldanza dei Taleban deriva dai proventi, sempre consistenti, dell’oppio: il 96% della produzione della preziosa sostanza proviene dalle province meridionali e occidentali, dove la presenza talebana è più forte (ma anche nel nord la loro avanzata pare, secondo recenti rilevazioni, purtroppo inesorabile). E l’oppio continua a costituire il 20-25% del PIL afgano: quest’ultimo, peraltro, è aumentato del 15% negli ultimi anni, ma la sua dipendenza dalla coltivazione del papavero e dagli aiuti internazionali fa sì che, di fatto, la situazione economica dell’Afghanistan non si possa certo definire rosea.

Un grosso incentivo allo sviluppo del Paese potrebbe essere costituito dalla costruzione di un oleodotto capace di trasportare il gas turkmeno fino in India e in Pakistan. L’accordo recentemente siglato, prevede la costruzione di un impianto snodantesi per circa 1700 km lungo il territorio afgano: va da sé che, senza condizioni di sicurezza, il faraonico progetto è destinato ad arenarsi presto.

Le forze internazionali si trovano quindi davanti ad una decisione quanto mai difficile: rimanere è d’obbligo, visto che il lavoro da fare è immane. Ma il prezzo da pagare sembra ancora altissimo, sia da parte della coalizione internazionale, sia da parte degli afghani innocenti.