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Complotto iraniano contro l’Arabia Saudita?

Da molti giorni il presunto complotto da parte del governo iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, Abdel al-Jubair, tiene banco sia sulle testate americane sia fra gli organi di informazione dei maggiori think thank statunitensi esperti in geopolitica. Nonostante il governo americano abbia non solo considerata plausibile la denuncia dei sauditi e addirittura arrestato due cittadini irano-americani accusati di essere implicati nell’abortito attentato, infatti, gli interrogativi sulla fallita congiura rimangono sul tavolo.

Certo, l’inimicizia tra Ryad e Tehran si è aggravata in questi ultimi anni, e non è un mistero che i due paesi ormai si combattano in una sorta di Guerra Fredda mediorientale, scontrandosi anche in modo bellico, non diretto, ma attraverso il rispettivo intervento in altri paesi, quali il Bahrein.

Sebbene nessuno scommetta sull’innocenza tout court del regime di Tehran, certo non scagionabile solo perché ha protestato veementemente contro l’accusa, negando sdegnosamente ogni implicazione nel presunto attentato, molti si chiedono, però, cosa avrebbe da guadagnare il regime degli ayatollah da un simile atto terroristico, e perché avrebbe agito in modo così ingenuo. Secondo le accuse, infatti, i servizi segreti iraniani si sarebbero serviti di affiliati al cartello della droga messicano, che avrebbero dovuto far saltare in aria Abdel al-Jubair mentre questi si trovava in un ristorante di Washington: cosa altamente improbabile, visto che è internazionalmente risaputo che le organizzazioni criminali messicane sono infiltrate da agenti FBI e DEA, con i quali certamente gli iraniani non vogliono incrociarsi.

Ma il quesito più importante riguarda la mancanza di strategia in una simile impresa. In questo momento, i rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti sono ad un livello assai basso, complice, soprattutto, il vento della primavera rivoluzionaria araba che Ryad osteggia apertamente sia ospitando i tiranni cacciati dai rispettivi paesi, sia offrendo supporto militare e logistico per reprimere le rivolte popolari negli stessi. E ciò, agendo in rotta di collisione con Washington che invece continua a esprimere il proprio supporto al cambiamento democratico in atto.

L’Iran non ha quindi nessun interesse a compiere atti che “riavvicinino” sauditi e americani, e neppure ad accrescere la tensione con l’Arabia Saudita o con gli Stati Uniti.

Mentre rimane comunque da scoprire l’identità di chi abbia ordito il complotto, quel che è certo è che quest’ennesimo episodio aggrava la tensione sia nell’area mediorientale sia a livello globale, fra Occidente e Medio Oriente. I sauditi continuano a chiedere “che l’Iran paghi”, ma Washington dovrà porre attenzione a non cadere nella trappola. Dopo il fallimento della “diplomazia coercitiva” praticata da Bush nei confronti della Repubblica Islamica d’Iran, neppure la politica intrapresa da Obama sembra efficace nel confronto con l’Iran, che ha acquisito una notevole importanza strategica in un Medio Oriente allargato fino all’Afghanistan, paese per il controllo del quale l’aiuto di Tehran è più che mai indispensabile. Inoltre, con l’uscita americana dall’Iraq l’influenza dell’Iran è destinata a crescere, aumentando il suo peso nello scacchiere internazionale. E’ più che mai necessario che si torni alla politica, senza cedere alle perniciose lusinghe delle armi.

Ancora sulle Saudite: anzi, su Abdullah Abdul Aziz

Una mia analisi sul Giornale di Brescia del 26 settembre:

Abdullah Abdul Aziz, sovrano dell’Arabia Saudita, ha ceduto: le donne potranno entrare a far parte della Shura, il Consiglio consultivo del regno, a partire dalla prossima sessione. Non solo, le saudite potranno candidarsi alle prime elezioni municipali (le uniche a svolgersi nel Paese arabo), ma non alle prossime, che si svolgeranno a fine settimana, ma nella successiva tornata, fra tra quattro anni circa.

La notizia è senza dubbio positiva, anche se non sufficiente a prevedere un rapido e roseo cammino per i diritti delle donne nell’ultra conservatore paese saudita: verrebbe infatti da chiedersi come si recheranno a svolgere le proprie mansioni politiche le consigliere elette, visto che non possono guidare, mentre le poche papabili all’incarico, inserite nel mondo del lavoro, lottano quotidianamente per farsi largo in una società ferocemente patriarcale, dove, ad esempio, una donna avvocato per recarsi in aula deve essere accompagnata da una figura maschile.

Questa graziosa concessione di Sua Maestà, comunque, rivela l’ansia che s’è impadronita dell’élite saudita, che non può più pensare di governare in modo autocratico e dispotico in quanto custode dei luoghi sacri dell’islam. Evidentemente, anche qui la primavera araba inizia a dare i primi frutti, dopo che nella prima fase di ribellione, la corte saudita aveva commesso alcuni passi falsi. Infatti, dopo aver chiaramente appoggiato Mubarak, ha offerto manforte al collega Khalifa al fine di contrastare militarmente la protesta dei cittadini del Bahrein, perlopiù sciiti. Queste due azioni hanno provocato enorme malcontento tra i sauditi, soprattutto tra gli sciiti, da sempre oggetto delle angherie della corona saudita.

Tuttavia, Abdullah Abdul Aziz è riuscito ad assestare due colpi a suo favore in poco tempo: il primo, agli inizi di agosto, quando si è erto a difensore dei siriani, attaccando violentemente il presidente Bashar al Assad per i ripetuti massacri; il secondo, grazie all’annuncio odierno di apertura politica nei confronti delle sue suddite.

Ovviamente in entrambi i casi si tratta di un calcolo politico. Se con l’attacco alla Siria la monarchia saudita intende colpire il suo principale nemico, l’Iran (che, al momento, costituisce l’alleato più sicuro per Bashar al Assad), cercando di contrastarne la crescente egemonia nell’area, con la concessione del voto alle donne il vecchio Abdullah Abdul Aziz cerca di calmare la montante protesta interna.

Infatti, pure l’Arabia Saudita soffre degli stessi problemi socio economici che hanno scatenato le proteste nel resto del mondo arabo: nonostante, infatti, il Paese sia assai più ricco di risorse (leggi, petrolio) rispetto alle altre realtà in rivoluzione, la sua giovane popolazione soffre di disoccupazione e di sotto occupazione. Le statistiche ufficiali parlano del 13% dei Sauditi sotto la soglia di povertà. E pure chi può contare su uno stipendio medio non se la passa bene: un commesso guadagna circa 800$ al mese, ma ce ne vogliono almeno 25mila per poter affrontare le spese di un matrimonio. Con il 60% della popolazione al di sotto dei 30 anni, questi problemi rischiano di divenire esplosivi. Per non parlare delle limitazioni alla libertà personale, di cui fanno le spese soprattutto le donne.

Alla monarchia saudita, insomma, urgono alcune operazioni di maquillage, e, con l’attenzione internazionale puntata soprattutto sul mondo femminile, ha deciso di uscire allo scoperto proprio con una “riforma” che, apparentemente, favorisce proprio le donne.