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I continui errori di Washington in Medio Oriente

Nella piattaforma programmatica di Obama e del suo rivale manca un capitolo importante: che fare in Medio Oriente nel prossimo mandato. La politica americana continua a essere carente nei confronti di una zona ampia e cruciale, nella quale seguita a mietere insuccessi clamorosi, soprattutto per mancanza di diplomazia, di analisi e di acume politico. Non si è ancora elaborato il lutto per l’ambasciatore ucciso in Bengasi dai terroristi ed ecco che Washington in questi giorni sdogana un gruppo iraniano, i Mujaheddin-e Khalq (MEK), dall’elenco dei gruppi terroristi esteri più pericolosi. Il sospetto condiviso da molti è si tratti di un premio concesso per l’aiuto prestato dal MEK in atti di sabotaggio compiuti a danno del programma nucleare della Repubblica Iraniana. Ancora una volta, quindi, gli Stati Uniti favoriscono gruppi estremisti perché lottano contro un nemico comune, salvo poi diventarne la prossima vittima.

Inoltre, gli Stati Uniti continuano la stretta collaborazione con l’Arabia Saudita, alla cui ideologia wahhabita si ispirano, tra l’altro, proprio gli attentatori che hanno ucciso l’ambasciatore americano di Libia; e mentre Washington si proclama a favore dei movimenti democratici dei popoli arabi, Riyadh ospita l’ex dittatore tunisino Ben Ali, rifiutandosi di consegnarlo a un tribunale internazionale dove dovrebbe essere processato per aver represso i propri cittadini.

I paesi mediorientali di cui l’America fino a poco tempo fa controllava i destini si stanno ribellando: anche l’ambasciata di Sanaa è stata oggetto di un attacco dopo l’uscita del famigerato film su Maometto, ma la folla inferocita non era tanto composta da barbuti inturbantati e offesi dal vilipendio del loro profeta, quanto da giovani in abiti occidentali arrabbiati per un drone americano che ha abbattuto dieci innocenti civili, urlando slogan contro l’ambasciatore Gerald Feierstein, grande sostenitore dell’ex Presidente Saleh. E’ la prima volta che un diplomatico americano viene fatto oggetto di pesanti dimostrazioni e accuse, ma ciò comprova quanto il sentimento anti americano sia rafforzato e esteso.

Se gli yemeniti rimproverano a Washington l’ingerenza interna, i bahreiniti si lagnano perché gli Stati Uniti chiudono gli occhi davanti al massacro perpetuato da quasi due anni sotto i loro occhi, complici, ancora una volta, i sauditi che hanno inviato le loro truppe per aiutare la dinastia di Manama a soffocare nel sangue la rivolta dei cittadini richiedenti riforme e giustizia.

E mentre Washington ha abdicato al proprio ruolo di pacere nella questione palestinese, ora più che mai ferma a un punto morto, potenti lobby premono su Obama chiedendo invece interventi militari volti a stroncare il terrorismo in Libia o il programma nucleare in Iran.

La politica americana in Medio Oriente è ambigua e autolesionista, soggetta a chi ritiene che, pur di contrastare l’Iran, considerato il nemico per eccellenza, si debba continuare l’alleanza suicida con regimi liberticidi e protettori del terrorismo quali l’Arabia Saudita.

Brutte notizie giungono pure dal fronte afghano: è stata definitivamente sospesa l’attività di sostegno alle forze di sicurezza locali, un chiaro segno del fallimento del lungo e costoso addestramento della forza di polizia locale. Ad Obama serve quindi un successo, e questo non arriverà senza una nuova strategia: ma il successo della politica americana in Medio Oriente serve altresì alla pace, e a noi tutti.

 

da Giornale di Brescia 30/9/2012

I fatti di Libia e Egitto

Gli eventi egiziani e libici di questi giorni si svolgono come una sorta di terribile dèjà vu: in concomitanza all’anniversario dell’11 settembre, un film blasfemo nei confronti dell’islam scatena attentati e disordini contro persone e simboli americani.

Tuttavia, i timori occidentali, questa volta, sono rafforzati dall’idea che ciò sia potuto accadere perché “primavere arabe” hanno portato al potere partiti ammiccanti a gruppi estremisti quali i Salafiti, sospetti di collusione con al-Qaeda, il cui vessillo sventolava nelle mani degli attaccanti l’ambasciata americana al Cairo.

E’ indubbio che la nuova direzione politica egiziana abbia cavalcato l’evento, anche se la protesta, in sé, è nata spontanea e fra gli scalmanati si sono notati pure gruppi di ultrà sportivi già attivi in piazza dai primi giorni della “primavera egiziana”. Ma è quantomeno strano che i facinorosi si siano potuti avvicinare così all’ambasciata, uno dei posti solitamente meglio protetti dell’Egitto.

Vi sono varie chiavi di lettura dell’evento: la situazione è tutt’altro che facile, la direzione del Paese è confusa e frammentata grazie alla tensione tra due poteri forti, ovvero i Fratelli Musulmani e le forze armate, tensione accresciuta pure dall’aiuto promesso dal Fondo Monetario Internazionale per l’economia egiziana che sta andando a rotoli: chi gestirà i fondi, e come? In questo momento, è soprattutto il Presidente Morsi a condurre la trattativa con il FMI, e sembra proprio che, come il suo predecessore, voglia giocare la carta del “pericolo islamista” per alzare la posta, magari alimentando il vento mai assopito dell’anti americanismo.

Risulta chiaro, infatti, che il sentimento antiamericano si è rafforzato nell’area, e ciò spiega, in parte, pure i sanguinosi fatti di Libia. Qui gli attacchi sono stati premeditati e condotti in modo professionale, ma rappresentano solo la conclusione violenta di una serie di attentati contro rappresentanze americane, britanniche e addirittura contro la Croce Rossa, compiuti in Libia in questi ultimi sei mesi. Nel paese nordafricano i tumulti continuano ad essere all’ordine del giorno, e il risentimento anti occidentale è forte, non solo tra i nostalgici del Colonnello, ma pure tra i suoi sovvertitori. Questi ultimi hanno più volte chiesto agli organismi internazionali di ammettere i loro errori passati, soprattutto la collaborazione con Gheddafi dal 2004 in poi, quando, per paura di una possibile invasione nera dell’Europa e per siglare lucrosi contratti di fornitura energetica, le potenze occidentali hanno tenuto in sella il Colonnello e il suo regime di polizia. Esponenti dell’attuale dirigenza libica hanno formalmente chiesto all’Unione Europea di essere trattati con rispetto ed avere giustizia, ad esempio di poter giudicare gli agenti del servizio segreto libico che hanno torturato e ucciso migliaia di connazionali e ora, grazie all’intervento della CIA, si godono una dorata pensione in Qatar.

Contrariamente all’Egitto, in Libia non sono andati al potere partiti islamisti, ma non per questo la situazione va sottovalutata: umiliazione e frustrazione sono presenti nell’area e per evitare altri futuri disastri queste considerazioni dovrebbero entrare prepotentemente tanto nell’agenda di Washington quanto in quella di Bruxelles.

 da Giornale di Brescia 15/9/2012

Iran: terremoto fisico e politico

Le catastrofi naturali sono banchi di prova per i governi dei paesi, così il terremoto che ha duramente colpito l’Iran occidentale lo scorso 11 agosto sta mettendo a nudo una serie di defaillance nella direzione della Repubblica Islamica, accusata sia di essere intervenuta con mezzi esigui a soccorso delle popolazioni colpite, sia di non aver dato tempestivi e ampi resoconti della disgrazia.

Il terremoto giunge ad acuire le sofferenze di una popolazione sempre più stremata da quella che è la peggior crisi economica da quando è stata varata la Repubblica Islamica, perfino peggiore di quella causata dalla lunga guerra contro l’Iraq negli anni ’80. La valuta nazionale (rial) è al minimo storico, e chi può investe il proprio denaro in valuta straniera, oro e proprietà immobiliari, svuotando le banche, dove i conti correnti valgono metà rispetto allo scorso anno. D’altro canto, il prezzo della vita è aumentato in modo esorbitante, e l’Iran sta soffrendo quella che viene chiamata “la crisi del pollo”: il volatile, che costituisce l’alimento base della dieta iraniana, ha visto il proprio prezzo triplicare in meno di un anno, e molti iraniani ormai non se lo possono più permettere. Tiene ancora bene il prezzo dell’altro cibo immancabile sulle tavole iraniane, il riso, che l’Iran compra dall’India in cambio di petrolio.

Ci si aspetterebbe la solita difesa da parte della autorità iraniane che costituisce nell’accusare “agenti esterni” per le sempre maggiori difficoltà economiche, ma ora questo gioco sembra finito: il regime ha sempre negato che le sanzioni internazionali lo stessero colpendo, e non può certo ammetterlo adesso.

La strada più semplice sembra l’individuazione di un capro espiatorio interno, e l’attuale Presidente della Repubblica sembra essere l’agnello sacrificale individuato. Accusato di aver favorito l’inflazione con una scriteriata politica dei sussidi, il Presidente ora rischia l’esautorazione ben prima che il suo mandato scada (giugno 2013), se non, addirittura, l’arresto, come ventilano voci interne. Ma anche in questa eventuale operazione la Guida Suprema del Paese, l’ayatollah Khamenei, ha le mani legate, se non altro, in parte: egli ha sempre sostenuto Ahmadinejad, anche di fronte ai tumulti del 2009 e almeno fino a un paio di anni or sono, e ora dovrebbe pubblicamente ammettere il proprio sbaglio madornale.

In questa situazione di impasse in cui tutti sono contro tutti, chi sopporta il peso della lunga crisi è la popolazione: quella colpita dal terremoto non può nemmeno contare sugli aiuti internazionali su cui pende la spada delle sanzioni. L’ufficio per il controllo dei capitali stranieri (OFAC) dipendente dal Ministero del tesoro statunitense ha pubblicato la lista dei beni da poter recapitare alla popolazione terremotata, ma il procedimento per far giungere medicinali e generi di prima necessità è così arzigogolato e difficile da renderlo impossibile. Nel contempo, le organizzazioni umanitarie internazionali lamentano come in Iran manchino medicinali di prima necessità, soprattutto pediatrici, carenza che costituisce un pericolo per giovanissima popolazione iraniana.

Se le sanzioni intendevano alimentare un possibile sollevamento popolare verso il regime, hanno fallito: la classe media iraniana, che costituisce il motore di rinnovamento e tensione verso la democrazia, è la più colpita ed incapace di organizzarsi, mentre i notabili del regime (incluso il corpo di guardie rivoluzionarie) dominano un’economia fatta di contrabbandi e scambi commerciali con paesi non allineati. A questo proposito, il 31 p.v. Tehran ospiterà il vertice dei paesi non allineati durante il quale il Presidente egiziano Morsi passerà la presidenza di turno all’Iran. La visita di Morsi è storica in quanto sarà la prima da parte di un alto responsabile egiziano in Iran da quando vige la Repubblica Islamica. Da quest’incontro il regime spera di trovare nuove alleanze e linfa per continuare. Resta da vedere quale sarà il destino degli iraniani.

da Giornale di Brescia 23/8/2012

Turchia in ansia per i curdi siriani

Nella crisi siriana si stanno affermando dei nuovi attori, ovvero, i curdi. Spostandosi verso il nord

ovest del loro paese, al confine con la Turchia, i curdi siriani che hanno sottratto al controllo delle

forze fedeli a Bashar al-Assad diverse cittadine, stanno mettendo in apprensione le autorità turche.

Ankara, sotto qualsiasi governo, si sa, non ha mai amato i curdi, anzi, la “questione curda” è quella

che spesso compatta tutte le compagini politiche del Paese: non desta meraviglia, quindi, che in questi

giorni l’opinione pubblica turca si stia chiedendo che cosa intenda fare il proprio governo.

Il Primo Ministro Erdoğan ha già ammonito la coalizione curda che si è attestata ai confini siro-

turchi, colpevole, secondo fonti turche, di aver issato come propria bandiera quella del PKK, il

Partito del Lavoratori già capeggiato dal famoso Őcalan, da tempo ospite delle carceri turche,

mentre il suo partito è stato dichiarato fuori legge per attività terroristica da Ankara.

I curdi siriani, comunque, sono divisi in partiti e fazioni non necessariamente concordi tra loro,

anche se è chiaro che tutti, nel panorama di disfacimento della Siria degli Assad, mirano a crearsi

uno stato indipendente, probabilmente guidato da una federazione formata dai vari gruppi simile a

quella creatasi nell’Iraq post Saddam. Una situazione malvista da Ankara, allarmata da un nuovo

stato curdo indipendente che possa spingere i numerosissimi curdi residenti fra i propri confini a

tentare di fare altrettanto.

Per il partito di Erdoğan questa è l’ennesima sfida lanciata dalla crisi siriana: da un lato, il governo è

tartassato dalle richieste dell’opinione pubblica che chiede la verità riguarda all’abbattimento dei

due F4 abbattuti dalle forze siriane oltre un mese fa. Damasco se ne è assunta la responsabilità, ma

il meccanismo dell’incidente non è chiaro, e le dichiarazioni del governo nemmeno. Sembra, infatti,

che i due aerei siano stati abbattuti in territorio siriano, non internazionale come affermato da Ankara

:ciò significherebbe che è stato commesso un atto irresponsabile da parte delle autorità turche che

avrebbe potuto condurre a una guerra con la Siria, senza che l’opinione pubblica ne fosse stata informata.

Dall’altra, gli oltre 45mila profughi siriani ospitati nei campi tendati turchi stanno divenendo un

problema: in questi giorni la polizia è dovuta intervenire con i gas lacrimogeni per sedare la protesta

dei profughi che si lamentano per le difficili condizioni di vita. Con il caldo intenso di questi giorni le

baracche in lamiera divengono dei forni, mentre il cibo offerto alla sera a conclusione della

giornata di Ramadan pare essere troppo scarso. Una situazione destinata a peggiorare perché,

nonostante la frontiera con la Siria sia stata chiusa, permangono dei valichi offerti proprio

ai fuggitivi dal regime di Assad, che ci si aspetta arrivino copiosi con la definitiva caduta del

regime.

Riuscirà la Turchia a governare tutto questo?

Se Ankara riuscirà a fronteggiare la situazione, anche dominando le proprie emozioni anti-curde,

diverrà la maggiore beneficiaria del cambiamento di regime siriano. La caduta di Assad spazzerà via

le ambizioni nell’area dell’amico-nemico Iran, lasciando alla Turchia il ruolo principale di ricostruttore

della nuova Siria. Mentre i paesi arabi, troppo presi con le loro diatribe, non hanno finora svolto

alcun ruolo rilevante nel conflitto siriano, la Turchia se ne assunta il ruolo leader, almeno per quanto

riguarda il lato umanitario-assistenziale, e vorrà mantenere tale ruolo anche nella ricostruzione

del paese limitrofo. Ma per fare ciò, la Turchia deve risolvere anche la sua “questione curda”, e

questo è il momento giusto per farlo.

pubblicato da Giornale di Brescia 1/8/2012

Gli Emirati danno soldi=gli Emirati sono perfetti (anche se musulmani…)

La faccia sorridente di Zlatan Ibrahimovic campeggia sulle pagine sportive dei giornali internazionali dopo che il fuoriclasse ha raggiunto la nuova squadra, il Paris Saint German per una cifra iperbolica, facendo aumentare a oltre 112 milioni di euro il budget sborsato dal PSG per acquistare i giocatori destinati alla nuova stagione. A consentire questi acquisti favolosi è il nuovo proprietario della squadra, l’emiro Sheikh Tamim Bin Hamad al Thani, membro della famiglia che regna nel Qatar, il quale non ha problemi di liquidità e, come già altri familiari e/o emiri di altri Paesi del Golfo prima di lui, mira a conquistare l’Europa, per ora solo calcisticamente. Questi ingenti investimenti di denaro provenienti dagli emirati sembrano far felici molti, e nessuno, in questo caso, sembra preoccuparsi di possibili ingerenze degli emiri nei destini europei né tanto meno gridano allo scandalo per questa “invasione islamica”. Sono lontani i tempi in cui atleti e  tifosi sollevavano obiezioni sulla partecipazione ai mondiali ospitati da paesi altamente illiberali, quali i mondiali di calcio in Argentina, negli anni ’70, o, più recentemente, alle olimpiadi cinesi di qualche anno fa.

Pecunia non olet, si sa, ma lo sport è paradigmatico di una certa miopia che pare affliggere molti, che accolgono trionfanti i soldi degli emiri con la scusa che migliorano la qualità del calcio europeo, ma non si preoccupano del fatto che questi personaggi sperperano all’estero denaro che andrebbe investito all’interno dei propri paesi migliorando la qualità di vita dei cittadini. Certo, il Qatar ospiterà addirittura i mondiali di calcio tra qualche anno, costruendo stadi con l’aria condizionata che consentiranno di giocare in un Paese, che d’estate, raggiunge i 50 gradi con il 100% di umidità:  ma qualcuno pensa alle condizioni delle migliaia di addetti che stanno già lavorando a queste strutture in condizioni spesso disumane? Certo, non si usano i qatarini per queste mansioni, per non creare scontento interno e contestazioni al regime, bensì milioni di pakistani, indiani, filippini e indonesiani che non hanno alcun diritto.  E per quanto riguarda i qatarini, forse gli emiri favoriscono le attività sportive dei loro cittadini? A giudicare dalla scarne rappresentanze da loro inviate ai giochi olimpici di Londra non si direbbe, senza contare che il Comitato Olimpico internazionale ha dovuto sostenere un vero e proprio braccio di ferro con molti di loro affinché includessero almeno una donna nel gruppo di atleti destinati a partecipare alle olimpiadi 2012.

A proposito di donne, quest’estate sta vedendo un aumento esponenziale di turisti nel nostro Paese in arrivo proprio da molti Paesi del Golfo. La loro presenza è marcata dalle loro compagne, moltissime delle quali arrivano con il velo integrale, o niqab che ricopre la faccia. Solitamente basta una di queste visioni nelle nostre strade per mandare in fibrillazione i difensori della laicità, della cultura locale, dei diritti delle donne ecc ecc.; ma in questo caso nessuno strepita, vuoi, perché anche col niqab le donne del Golfo amano le grandi firme, e con i loro pingui acquisti nelle boutique nostrane contribuiscono positivamente alla crisi che ci attanaglia, vuoi perché si pensa trattarsi di una presenza transitoria. Da questi Paesi accettiamo solo il denaro, chiudendo gli occhi su scomode “usanze”, incuranti del fatto che lì la democrazia non possa nemmeno essere nominata,  accanendoci verso altre realtà geo-politiche che non ci portano alcun vantaggio immediato.

Pubblicato da Giornale di Brescia 25/7/2012

Che fine ha fatto Ahmadinejad?

Che fine ha fatto Ahmadinejad? Dopo la batosta elettorale della primavera scorsa che ha annullato la compagine parlamentare a lui favorevole il Presidente della Repubblica Islamica d’Iran sembra scomparso, sia a livello interno quanto, soprattutto, a livello internazionale. Il count down per il suo ultimo anno di presidenza è iniziato da oltre un mese, ma politicamente Mahmoud Ahmadinejad è finito, annientato dai suoi avversari che si stanno combattendo ferocemente per la spartizione del potere, ma che ancora utilizzano la figura ormai caricaturale del Presidente per addossargli la colpa della sempre più profonda crisi economica che sta mettendo a dura prova la vita degli iraniani. Che la situazione economica sia drammatica è provato dal fatto che all’ultimo colloquio di Istanbul, avvenuto la settimana scorsa, per la prima volta Tehran ha chiesto l’annullamento delle sanzioni in cambio dello stop al famoso arricchimento al 20% dell’uranio. La maratona di 15 ore di colloquio tra Iran e le super potenze è passata inosservata, sia perché si è trattato di discorsi super tecnici, sia perché l’opinione pubblica internazionale sembra stanca di questa negoziazione che sembra essere infruttuosa e senza fine. Ma la draconiana stretta delle nuove sanzioni varate il primo luglio, che di fatto impediscono ai paesi dell’Unione europea di importare petrolio iraniano, sta provando il Paese dell’altopiano fuori d’ogni misura. Fino a oggi l’Iran poteva contare su ancora ingenti esportazioni del proprio oro nero, ma ora il mercato europeo è definitivamente chiuso, mentre l’Iraq ha ripreso a pompare per sostituire il petrolio iraniano.

Intanto, nel paese degli ayatollah l’inflazione ha toccato il 30% e la gente fatica sempre più ad arrivare a fine mese: il costo della vita ha raggiunto livelli europei, ma gli stipendi medi non raggiungono neppure la metà del corrispettivo europeo.

La frustrazione degli iraniani è altissima, e il loro senso di isolamento si è acuito. I paesi circostanti approfittano di questa debolezza, come l’Azerbaijan, che sta fomentando la ribellione contro il governo di Tehran dei suoi quasi 25 milioni di cittadini di ceppo azeri: Baku, in ottimi rapporti con Israele, è sospettata di offrire base logistica ad operazioni spionistiche israeliane in Iran, compresi i vari attacchi al sistema informatico nucleare iraniano grazie a dei virus, verificatisi nel recente passato. E il nemico più potente dell’area, l’Arabia Saudita, sta negando i visti ai cittadini iraniani che vogliono recarsi in pellegrinaggio nei luoghi sacri dell’islam, situati, appunto in territorio saudita. Al contempo, gli iraniani, che già da tempo diffidano delle linee aeree interne ormai da tempo carenti nella manutenzione (bloccata dalle sanzioni) ora diffidano pure delle tratte internazionali solitamente coperte dalla compagnia di bandiera, l’Iran Air, e i milioni di immigrati che solitamente tornano a casa per le vacanze estive si stanno accalcando sui voli delle compagnie aeree europee e su quelle dei paesi del Golfo.

L’Iran sembra essere allo stremo, ma le sue autorità temporeggiano ancora, convinte che, almeno sino alla prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ci sia margine per evitare eventuali attacchi bellici. Così anche nell’ultimo colloquio hanno negato la chiusura dell’impianto di Fordow, presso la città santa di Qom, strategicamente situato fra montagne difficilmente attaccabili militarmente.

Gli effetti della crisi iraniana, nel frattempo, sono arrivati in Italia: a Falconara Marittima la raffineria API, cliente abituale del petrolio iraniano, ha messo 400 dipendenti in cassa integrazione. Mentre l’ENI, in credito di 2 miliardi di dollari in petrolio greggio iraniano, potrebbe vedere il suo credito annullato, per rappresaglia, dalle autorità di Tehran, non nuove a questo tipo di guerra per via economica.

 pubblicato da Giornale di Brescia 12/7/2012.

Le conversioni all’islam

Le conversioni alla fede islamica sono in aumento anche nel mondo occidentale. In Gran Bretagna, ad esempio, sono parecchie decine di migliaia i cittadini di fede cristiana, o non professanti alcunché, che hanno abbracciato l’islam, il 75% dei quali rappresentato da donne. Un bel risultato per una religione che molti etichettano quale “misogina”.

In Italia vi sono ormai alcune associazioni che raggruppano i convertiti all’islam, a Milano, Vicenza, Roma, nelle quali la presenza femminile è attiva e in crescita. Non vi sono statistiche precise, perché i diretti interessati non si sono ancora censiti, mentre le illazioni dei media a riguardo sono spesso faziose e irrispettose: la rassegna stampa di reportage sul mondo dei convertiti che ho raccolto trasuda di incredulità, facile ironia sul profilo dei nuovi musulmani, dipinti generalmente come personaggi border line che hanno attraversato tutte le correnti di pensiero e vissuto esperienze di vita diversamente estreme prima di trovare un porto sicuro nell’islam. Le donne, poi, sono considerate solo “convertite per amore”, ovvero, creature fragili che cambiano religione solo perché attratte da un uomo musulmano: incasellate, così, in un ritratto razzista e maschilista.

Certamente le conversioni al buddismo o alle varie religioni “new age” non provocano la stessa reazione causata dall’aumento della popolazione musulmana nel nostro Paese, che inquieta soprattutto coloro i quali identificano l’islam con l’oscurantismo, o, peggio, con il terrorismo. Il fatto poi che siano delle donne a scegliere di aderire all’islam dove, secondo i più, s’annidano tutti i peggiori nemici del genere femminile, dalla poligamia alla lapidazione, dalle mutilazioni genitali all’annullamento della figura femminile nella sfera sociale, risulta inspiegabile e incomprensibile. Ciò avviene soprattutto perché i pregiudizi nei confronti dell’islam sono pervicaci e tenaci: per quanto sia gli stessi musulmani sia gli studiosi dell’islam dichiarino e scrivano con autorevolezza che le cosiddette mutilazioni genitali femminili non sono una pratica musulmana, che lapidazione non è presente nel Corano, che la poligamia è sempre stata fenomeno limitato e controverso e che la presenza delle donne nella società è legata a fattori assai diversi da quello religioso (economico, culturale, geografico, ecc.), l’islam continua a essere identificato come un pericolo soprattutto per la libertà delle donne e, di conseguenza, per l’intera società.

Pertanto, la conversione all’islam (anzi, come dicono i musulmani) il “ritorno” all’islam di milioni di individui si presenta come un rebus di difficile soluzione.

Eppure, basta chiedere le motivazioni della propria conversione agli interessati. Cinzia Aicha Rodolfi, con il suo libro, offre molte risposte.

Certo anche Cinzia potrebbe essere etichettata come “convertita per amore”, giacché la sua scelta è stata conseguente all’innamoramento per un coetaneo tunisino, ma la sua testimonianza prova che, in realtà, il sentimento è stato solo l’occasione d’incontro con una religione che l’ha coinvolta in modo profondo.

La conversione di Cinzia non trova adeguata risposta per molti: era (ed è tuttora!) una ragazza bella, istruita, di famiglia benestante, dotata di indipendenza economica derivante prima da una professione basata sul culto del corpo (modella), poi da un lavoro in cui comunque la bella presenza è fondamentale (accompagnatrice turistica). La sua scelta di abbandonare non solo l’esposizione del corpo, ma addirittura di assumere il velo, che per moltissimi rappresenta la negazione della femminilità, come essa intesa in occidente, risulta incomprensibile ai più. Anche perché il velo non le è stato non solo imposto, ma neppure richiesto dal marito.

Non c’è dubbio, infatti, che di tutti i simboli musulmani, il velo è quello che provoca le reazioni più scomposte: la stessa presenza delle donne velate nel nostro Paese viene monitorata come segno dell’espansione dell’islam, quasi che esse fossero tanti minareti. Forse perché, un tempo, i minareti erano eretti dai musulmani a dimostrazione della loro presenza in zone abitate da altre religioni.

Il velo occupa il centro del discorso tra islam e occidente. Da secoli il velo è per l’islam il

segno di demarcazione tra pubblico e privato, la protezione per la sfera intima e inviolabile: mentre, al contrario, l’occidente vede il velo come il segno della distanza invalicabile tra Est e Ovest. Se nei paesi d’origine il velo è considerato segno di arretratezza e/o di costrizione, il velo delle musulmane che vivono in occidente è spesso interpretato quale simbolo della mancanza di volontà da parte della comunità islamica di “integrarsi”.

Cinzia Aicha ci chiarisce le ragioni per cui ha liberamente adottato il velo, che possono essere comprese oppure no, ma che vanno ascoltate da chi desidera capire. Lei ha scritto questo libro per un’esigenza interiore, non per insegnare, ma soltanto per raccontare il suo percorso.

Certamente, la testimonianza di Cinzia Aicha non rientra nel binomio classico “donna e islam”, che vende molto, poiché basato su testi costruiti per compiacere le aspettative di un certo pubblico occidentale rispetto alle donne musulmane: storie dolorose, di ammissione di errori compiuti, di costrizioni e di maltrattamenti, che certamente esistono, ma che non sono esclusivo appannaggio del mondo islamico, né tantomeno lo caratterizzano. L’immaginario collettivo vuole ancora immagini femminili avvolte in neri ciador iraniani, nei burqa azzurri afghani, o dai volti celati dal niqab. Ma sempre più lettori avvertono la necessità di andare oltre il facile stereotipo propinato da coloro che vogliono “velare” la reale immagine dell’islam.

Questo libro è dedicato a loro.

Anna Vanzan

Prefazione : Cinzia Aicha Rodolfi, Dalle sfilate di moda al velo…una musulmana italiana, Al Hikma, 2012.