Caos a Kabul, emblema di una guerra fallita

Il caos sembra nuovamente regnare a Kabul, in seguito alle violente manifestazioni di protesta dei locali contro la ambasciata americana, dopo che materiale religioso e copie del Corano sono state bruciate nella base Usa di Bagram, a pochi chilometri dalla capitale afgana.

Qualcuno ha già etichettato l’ira degli afgani come la “solita” manifestazione integralista, ma è bene invece inquadrare quanto sta accadendo in una prospettiva più ampia. Solo una settimana fa, martedì 14, si sono verificati violenti attacchi a Kabul: un commando, presumibilmente talebano, si è arroccato in un alto e incompiuto edificio (impietoso simbolo della “non” ricostruzione del Paese) da dove ha fatto fuoco per l’intera giornata contro l’ambasciata americana, il quartiere generale Nato e la sede della direzione della Sicurezza nazionale. Contemporaneamente, si sono verificati due attacchi suicidi vicino il Parlamento, mentre ne è stato sventato un terzo nei pressi dell’aeroporto. Mentre l’ambasciatore americano, Ryan Crocker, ha sminuito l’evento dicendo che non era accaduto “nulla di grave”, il Presidente Karzai ha lodato la reazione delle forze di sicurezza: ma le sue parole non ingannano nessuno, tantomeno gli afgani, i quali si rendono conto dell’estrema fragilità delle loro vite e dell’imperizia delle istituzioni preposte alla loro difesa. Gli attentatori di S. Valentino, ad esempio, sono riusciti a passare i posti di blocco con tanto di armi nascoste sotto i burqa con i quali si erano travestiti. Nessuno li ha fermati, perché nella stragrande maggioranza dei check point non ci sono soldatesse o poliziotte che possano perquisire le donne, vere o false che siano. Eppure, che il burqa sia il miglior travestimento per un uomo in Afghanistan è risaputo: ancora nel lontano 2001 il film Viaggio a Kandahar rivelava questa tecnica al mondo intero, possibile che le forze di sicurezza locali non la conoscano? Certamente, l’addestramento della polizia locale è lento, e la sua inefficienza imputabile pure agli stessi poliziotti, per molti dei quali si tratta di un lavoro stagionale: si calcola, infatti, che il 35% di loro abbandonino il lavoro d’estate, in tempo di raccolto, ovviamente più redditizio della magra paga di tutore delle forze dell’ordine, per non parlare dei rischi inclusi.

Se per tutti gli afgani la situazione è intollerabile, lo è ancora di più per coloro i quali (ed è la maggioranza) considerano la forza internazionale una forza di occupazione e che si chiedono che senso abbia aver sopportato un “occupazione” per oltre 10 anni se la situazione non è migliorata. E ciò è tanto più grave perché gli attentati si sono verificati a Kabul, considerata un’isola felice per quanto riguarda la sicurezza rispetto al resto del Paese.

Ecco, allora, che la frustrazione scoppia, e non per un nonnulla, ma perché, ancora una volta, le forze internazionali dimostrano spregio per il simbolo stesso della religione praticata dalla stragrande maggioranza degli afgani. In un paese diviso da rivalità tribali, etniche, e, soprattutto, politiche, il Corano è la bandiera nazionale.

Altro motivo di frustrazione per moltissimi afgani è il fatto che gli americani hanno confermato la volontà di avviare i colloqui con i Taleban che si sono aperti un ufficio diplomatico a Doha: è il palese riconoscimento di una sconfitta, nonché la legittimazione di una forza che avrebbe essere stata sgominata da una guerra decennale che ha comportato pesanti perdite e lutti.

L’avvio dei colloqui coi Taleban è già una vittoria per questi ultimi: ma arrivare al cuore di Kabul e tenerla in scacco per 20 ore significa voler alzare ancora la posta.

pubblicato su Giornale di Brescia, 23/2/2012.

33 anni di Rivoluzione Islamica in Iran

11 febbraio 1979-11 febbraio 2012: sono trascorsi 33 anni da quando in Iran la monarchia imperiale di Reza Pahlavi è stata rovesciata e sostituita da una Repubblica teocratica.

Nel 1979 fu l’intera società civile (all’epoca il termine non era ancora di moda!) a ribellarsi contro lo Stato e tutti si rovesciarono in piazza allorché il tiranno coronato partì per l’esilio da cui non sarebbe più ritornato. Ma pochi mesi dopo erano molti i disillusi dalla rivoluzione, le carceri erano piene di dissidenti, gli aeroporti presi d’assalto da gente che voleva emigrare per non finire vittima delle purghe di stato, o per non essere arruolata e spedita al fronte iracheno, dopo che Saddam Hussein aveva attaccato la giovane Repubblica.

Da allora, si è innestato un testa a testa tra Stato e Società dove il primo cerca di inculcare principi liberticidi senza riuscirvi, nonostante il persuasivo uso della forza, e la seconda s’oppone mettendo in atto forme di resistenza civile e cercando la quotidiana erosione del Potere.

L’Iran si è evoluto in una ridda di contraddizioni scoppiate lungo il corso del post Rivoluzione, in gran parte dovute allo scollamento tra società civile e autorità: nonostante decadi di propaganda e di imposizioni, gran parte della società civile non ha assimilato i dettami “religiosi” intimati, ma, al contrario, sembra andare in senso uguale e contrario rispetto ai parametri che il regime continua a dettare. Un caso eclatante, solo in parte superficiale, è il dettame vestiario: le iraniane sono obbligate a coprirsi il capo e ad osservare una certa morigeratezza degli abiti quando agiscono nella sfera pubblica, ma la maggioranza delle donne sfida le autorità adottando dei veli “impropri”. Mentre in tutto il mondo le musulmane lottano per poter indossare il velo in pubblico (in situazione migrata, ma anche in Turchia e in qualche stato arabo), le iraniane confutano l’obbligatorietà del velo quale imposizione non religiosa, bensì statale.

L’Iran di questi ultimi trent’anni è stato travagliato anche da vicissitudini esterne, in primis la lunga e sanguinosissima guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein (1980-1988). Poi, è arrivata la “scomunica” di Bush jr. che ha incluso l’Iran nell’ “asse del male”, cercando di creargli un cordone sanitario attorno. Orgoglioso nel suo isolamento, profondamente convinto di essere giusta vittima di concorrenti empi, l’Iran ha cercato in tutti i modi di creare legami legami esterni, soprattutto coi paesi del Centrasia, geograficamente e culturalmente vicini. Il suo isolamento è stato poi acuito da altri avvenimento bellici di questi anni: le guerre in Iraq e in Afghanistan hanno portato le truppe internazionali (ostili all’Iran) ai suoi confini; la Turchia, paese NATO, ospita truppe e armamenti americani; il Pakistan è da sempre un alleato di Washington; nel Golfo, il Bahrein accoglie permanentemente la V flotta statunitense, mentre l’Arabia Saudita, con la quale scorre vecchia inimicizia, è in stretti rapporti d’amicizia e business con gli Stati Uniti.

Infine, s’è aggiunto il progetto del nucleare, che è entrato in rotta di collisione con gli schemi delle potenze mondiali, le quali, convinte che l’Iran voglia il nucleare a scopi bellici e non solo civili, ha iniziato un braccio di ferro con sanzioni da parte dell’Onu e minacce in risposta da Tehran, quale quella di bloccare lo stretto di Hormuz, nodo cruciale per l’esportazione del petrolio. Negli ultimi tempi, i tamburi di una possibile guerra contro l’Iran suonano sempre più insistentemente. Paradossalmente, si tratta di una guerra che nessuno dei due contendenti, per vari motivi, si può permettere. Ma la minaccia reiterata tiene in costante preoccupazione soprattutto la popolazione civile iraniana, già provata da censure interne e sanzioni interne.

articolo pubblicato da Il Giornale di Brescia, 12/2/2012.

Ancora elezioni in Kuwait, paese “democratico”

Febbraio: si vota in Medio Oriente. L’Egitto va verso il secondo turno parlamentare, in attesa di eleggere il presidente in marzo; il presidente dello Yemen dovrebbe essere eletto il 21 e pure la Siria dovrebbe andare alle urne per il Parlamento entro fine mese. Condizionale d’obbligo, vista la situazione dei Paesi.
Già avvenute, il 2, invece, le elezioni in Kuwait, Paese cui tutto il mondo guarda con interesse: la piccola monarchia, infatti, possiede il 10% di riserve del greggio e, dopo le sanzioni contro l’Iran, l’oro nero kuwaitino acquista valore. L’Italia è particolarmente coinvolta, basti pensare che la Kuwait Petroleum è partner al 50% di Agip nella raffineria di Milazzo, e che sul nostro territorio operano oltre 2.600 stazioni Q8.
Gli elettori del Kuwait hanno votato tre volte in tre anni, e quest’ultimo appello è dovuto all’ennesima crisi tra Governo e Parlamento che dura da 2 anni. La crisi, quindi, precede le primavere arabe e senz’altro è differente (come ogni altra); ma il vento di primavera è arrivato al Golfo, con proteste nel 2011 anche nelle pacifiche strade di Kuwait City.
Nonostante il Kuwait si vanti come Paese più democratico del Golfo, il Governo non ha ci pensato due volte ad arrestare un ingente numero di attivisti che protestavano per la corruzione di una dozzina di parlamentari, rei di aver preso mazzette dal Governo in cambio del loro supporto. Cifre da capogiro: si parla di 90 milioni di dollari pagati dalla Banca nazionale ad almeno due parlamentari.
Scopo degli attivisti, inoltre, è puntare l’attenzione sulla necessità di democratizzare il sistema: formare partiti, ora proibiti; elezioni anche per il premier, ora carica garantita a un membro della famiglia reale Sabah; eliminare la prerogativa dei membri del Governo di partecipare alle riunioni parlamentari con diritto di voto: 15 ministri hanno infatti diritto a partecipare con voto alle riunioni dei 50 parlamentari eletti, una percentuale inquietante.
Il frequente ricorso alle urne, quindi, non solo non è prova di democrazia in Kuwait, ma ne rivela le falle. In mancanza di partiti, l’opposizione s’organizza in movimenti, specie giovanili, da quelli di stampo «liberal-occidentale» fino a quelli affiliati ai Fratelli Musulmani. La gioventù condivide molte delle caratteristiche viste nei Paesi protagonisti delle rivolte del 2011: bersaglio principale è la corruzione, scopo è raggiungere maggiori diritti costituzionali e democratici. Rispetto ai colleghi a Tunisi o al Cairo, i kuwaitini debbono affrontare anche altri problemi: le tensioni urbane e tribali, alimentate dal fatto che la componente tribale, dipendente da sussidi e impieghi statali, è in perenne frizione con l’élite mercantile. È anche aumentata la tensione tra sunniti e sciiti che, fortunatamente non al livello del vicino Bahrain, è comunque fattore di rischio.

questo articolo è apparso nel Giornale di Brescia del 5/2/2012.