Marocco: errori ‘reali’ e voglia di democrazia

Una versione di questo articolo è uscito nel Giornale di Brescia del 27/11/2011:

Le elezioni parlamentari avvenute in Marocco hanno confermato la tendenza dei paesi nord africani ad appoggiare partiti islamici moderati. Dopo il risultato tunisino del mese scorso, la vittoria del partito islamico marocchino sicuramente non sorprende: né, conoscendo gli antefatti, dovrebbe sorprendere la scarsa affluenza alle urne (solo il 45% degli oltre 13 milioni aventi diritto di voto), diserzione non certo imputabile ad una presunta carenza di spirito democratico nei marocchini, ma proprio al suo contrario. Anche i marocchini sono scesi in piazza lo scorso inverno chiedendo riforme e democrazia, e la protesta di moltissimi giovani e di qualche partito d’opposizione si è coagulata in un movimento, il “Movimento 20 febbraio”, il cui slogan è “dignità, libertà, giustizia sociale”. Il gruppo ha avuto da subito vita difficile e le sue pubbliche manifestazioni a cadenza settimanale sono state ostacolate dalla polizia: forse perché la principale rivendicazione è quella di porre fine al monopolio politico-economico detenuto dalla corte reale e dai suoi protegé.

Gli aderenti al “Movimento 20 febbraio” non si sono lasciati ingannare dalla piattaforma di riforme proposte da Mohammad VI che hanno definito “un superficiale maquillage”: domenica 20 novembre sono tornati nelle principali piazze chiedendo ai connazionali di boicottare il voto e riproponendo la propria lista di riforme, in cui si richiede, tra l’altro, la liberazione dei prigionieri politici, fra i quali spicca il giovane rapper Mouad Belrhounate, in carcere dallo scorso settembre per aver scritto una canzone in cui contesta l’assoluto potere del re.

Il boicottaggio, comunque, è stato praticato anche da chi non aderisce al “Movimento 20 febbraio”: interviste a gente comune hanno confermato la disaffezione a partiti che presentano da trent’anni gli stessi candidati e che sono rei di corruzione (fra cui spicca il Partito Socialista, al governo dal 1998 e coinvolto in numerosi scandali); o, che, comunque, hanno contribuito all’inasprimento della situazione economica del Paese, il cui debito estero è cresciuto ulteriormente in quest’ultimo periodo. Anche la coalizione “G8”, nata per contrastare il partito islamico moderato mettendo insieme politici dalla natura e dal profilo diversissimi, ha ulteriormente disgustato l’elettorato marocchino che l’ha definita “una cricca di opportunisti”, destinati, oltretutto, al suicidio politico.

Nonostante Mohammad VI e molti suoi sostenitori, anche stranieri, fino a ieri parlassero dell’ “eccezione del Marocco”, il paese maghrebino non può rimanere immune dall’ondata di cambiamento che squassa gli altri paesi arabi, perché non solo condivide tutti i problemi degli altri stati in rivoluzione, ma in più è caratterizzato da un tasso di analfabetizzazione (oltre il 56% degli adulti non sa né leggere né scrivere), di disoccupazione e di mancanza di protezione sociale (il 70% non possiede una polizza per assistenza sanitaria) e di povertà (circa il 30% della popolazione non ha a disposizione né acqua corrente né elettricità) superiore a molti altri.

Un piccolo segnale di cambiamento, comunque, queste elezioni l’hanno introdotto: ora Mohammad VI dovrà nominare il Primo Ministro tra le fila del partito che ha conseguito il maggior numero di seggi, non più, come in passato, nominando qualcuno a suo esclusivo capriccio.

 

25 Novembre, giornata per l’eliminazione delle vioenze contro le donne. Un mio pensiero per le donne di Libia

Una versione di questo art. è pubblicato sul Giornale di Brescia di oggi:

Da oltre dieci anni, le Nazioni Unite hanno designato il 25 novembre quale giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Se le vessazioni domestiche sono un problema che, purtroppo, accomuna tutte le donne del mondo, vi sono aree in cui esse subiscono una doppia violenza dovuta alle vicissitudini politiche del loro Paese. E’ il caso delle donne dei paesi arabi i quali, dal nord Africa al Golfo Persico, sono in preda a cambiamenti epocali dall’esito futuro ancora incerto e dove uomini e donne si confrontano quotidianamente con la brutalità con la quale i governi rispondono alle legittime domande dei cittadini.

In queste situazioni le donne non stanno semplicemente “cucendo le bandiere”, per usare una famosa immagine risorgimentale cara anche da noi, ma, dopo aver aiutato i connazionali a scardinare i regimi dittatoriali, lottano ora per costruire nuove democrazie nelle quali anche i loro diritti dovrebbero trovare la giusta collocazione.

E’ il caso della Libia, già peraltro scomparsa dall’attenzione internazionale che per mesi è rimasta focalizzata quasi esclusivamente sul destino del suo leader e su quello delle risorse petrolifere e delle loro possibili distribuzioni fra le potenze europee.

Viceversa, le donne libiche hanno apportato un contributo essenziale al rovesciamento di Gheddafi, giocando un ruolo sia tradizionale (gestendo cucine da campo e postazioni di soccorso sanitario per profughi e rivoltosi), sia più innovativo quale, ad esempio, quello svolto delle impiegate governative che hanno fornito informazioni utili ai ribelli; o quello delle donne che hanno contrabbandato armi destinate agli stessi. Molte hanno pagato un prezzo assai alto, con la loro vita o rimanendo vittime di stupro, strumento sempre usato nelle situazioni belliche, soprattutto quando gli attori sono animati da presunte istanze tribali e/o etniche, come avvenuto nel caso libico.

E proprio nel carattere tribale che parzialmente forma l’identità libica risiederebbe, in parte, l’ostilità a un’effettiva partecipazione politica delle donne nel prossimo governo; mentre, d’altro canto, una manipolata versione della religione islamica sta già paventando alle libiche una riduzione dei loro diritti. Non è tanto l’annunciata probabile assunzione della shari’a come parte integrante del diritto libico che spaventa le cittadine (ricordiamo, peraltro, che molte istituzioni sharitiche sono già presenti nei codici libici, seppure in versione “gheddafiana”); ma temono, piuttosto, la possibile imposizione di un’interpretazione monolitica (ovvero, patriarcale e misogina) della legge islamica.

Dal punto di vista delle donne la Libia è un paese ricco di contraddizioni, dove esse rappresentano solo il 25% della forza lavorativa del Paese, ma dove, altresì, in una città conservatrice come Bengasi costituiscono il 40% degli avvocati: un’ennesima riprova delle luci e ombre nelle politiche gheddafiane, comprese quelle di genere.

Ora, il bagno di sangue libico può comportare due conseguenze opposte per il destino delle donne, come già sperimentato in altri, recenti teatri di guerra: da un lato, frenarne bruscamente l’avanzata (come successo in Iraq); dall’altro, essere foriero di un impeto verso le istituzioni democratiche, come testimonia il Ruanda, un tempo flagellato da un’orrenda guerra civile, ora fra i paesi a maggiore rappresentanza parlamentare femminile al mondo.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Elezioni in Egitto

leggi il mio art. sul Giornale di Brescia del 12/11/2011:

Mentre la Tunisia lavora per varare un nuovo governo e redigere la prima costituzione democratica della sua storia, l’altro grande paese protagonista della “primavera araba”, ovvero l’Egitto, si prepara a un turno elettorale pieno di incognite e di preoccupazioni. In questa interminabile fase di transizione il potere continua a essere gestito dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (CSFA) il quale, apparentemente, non dovrebbe giocare alcun ruolo nelle elezioni, ma solo garantirne lo svolgimento pacifico, per poi ritornare ai propri compiti di difesa dello stato. Tuttavia, in queste ultime settimane si sono verificati alcuni eventi che fanno presagire come l’esercito non sia intenzionato a lasciare il potere: dapprima, è giunta la candidatura alla presidenza di un alto ufficiale, Muhammad Husayn Tantawi, sostenuta da una lobby di militari; quindi, due proposte governative che prevedono, rispettivamente, la facoltà del CSFA di nominare 80 dei 100 membri della commissione incaricata di riscrivere la costituzione e la garanzia (inviolabile pure dalla futura costituzione) che il budget dei militari non potrà essere sottoposto ad alcun esame del parlamento. Si noti che l’esercito controlla, oltre a vari insediamenti industriali, un cospicuo patrimonio terriero (in un Paese la cui principale risorsa è l’agricoltura), nonché il Mar Rosso e il suo lucroso gettito turistico.

E’ altresì da considerare il fatto che, visti i tempi lunghi dell’iter procedurale egiziano (fra elezioni del parlamento, stesura della nuova costituzione ed elezione del nuovo Presidente ci vorrà oltre un anno di tempo) le elezioni presidenziali si terranno nel 2013: nel frattempo, l’esercito continuerà a governare, perché l’attuale sistema prevede che governo e primo ministri non rispondano al parlamento, bensì direttamente al Presidente, del quale l’esercito è vicario…

Dall’altra parte della barricata si trova il fronte islamista, costituito non solo dai famosi Fratelli Musulmani, ma animato altresì da una miriade di partiti “religiosi”: compagini nate dalle defezioni di giovani attivisti proprio dalle fila dei Fratelli, vecchie formazioni rimaste a lungo fuori legge (fra cui la Jama al Islamiyya, da cui uscì il sicario del Presidente Sadat nel 1981), addirittura partiti formati da confraternite sufi (mistiche). Certo nessuno di questi gruppi può vantare la capillare ed antica presenza sul territorio dei Fratelli Musulmani, socialmente attivissimi, tanto da costituire spesso l’unico aiuto per molti egiziani sotto la soglia di povertà. Ecco perché anche un vecchio partito di ispirazione socialista quale al-Wafd aveva cercato, all’inizio dell’estate, di entrare in una coalizione politica coi Fratelli. Ma l’alleanza è terminata prima ancora di giungere alle urne.

La presenza di questa ampia scelta islamista preoccupa i partiti “laici” , alcuni dei quali evitano di definirsi tali in un Paese in cui, per molti, “laicità” è sinonimo di “ateismo”. Fra questi, spicca al-Adl, il Partito della Giustizia, nato in piazza Tahrir nei giorni caldi della rivoluzione, quando giovani e meno giovani professionisti decisero di costituire un partito di tecnici liberi da ogni ideologia e dediti solo a mettere l’Egitto sulla strada delle riforme e di una nuova economia.

Difficile prevedere quale dei 35 partiti e quali fra i candidati indipendenti nelle liste a disposizione degli elettori egiziani emergeranno il prossimo 28 novembre. La sfida, in ultima analisi, è fra l’auspicabile varo di una società pluralistica e democratica o la continuazione di un sistema dispotico, sia esso vestito con l’uniforme militare o con un turbante pseudo-religioso.