L’Iraq è nuovamente squassato da atti di terrorismo. L’uscita delle forze statunitensi ha indubbiamente contribuito ad acuire il clima di incertezza politica nella quale il Paese arabo è precipitato nei primi anni del 2000, e dal quale non si è più risollevato, se non per brevi periodi. Partite le ultime truppe americane, i contendenti al potere iracheni hanno sollevato anche la sottile maschera di reciproca collaborazione che avevano sfoggiato in precedenza, quella finta promessa di rinunciare ai propri interessi per il bene comune. Negli ultimi giorni alcuni episodi hanno aggravato la crisi, in particolare l’attacco del premier Nouri al-Maliki (shiita) nei confronti del suo vice Tariq al-Hashimi (sunnita), accusato di essere un terrorista. Così, mentre Hashimi stava per imbarcasi in un volo che l’avrebbe portato ad incontrare il leader curdo-iracheno Massoud Barzani, Maliki ne ha impedito la partenza, ha fatto arrestar alcuni membri della sua scorta e ha chiesto la parlamento di sfiduciare Hashimi (ovviamente, senza l’immunità parlamentare, l’arresto di Hashemi sarebbe immediato).
Ovviamente, l’appartenenza religiosa dei due contendenti ha poca importanza, in quanto le rispettive affiliazione religiose (sciita e sunnita) sono solo la copertura di precisi e contrastanti interessi politici.
Ed è per interesse politico-energetico che gli US continuano a monitorare da vicino quanto accade in Iraq, mentre le polemiche sul bilancio finale della missione americana continuano ad occupare media e discussioni accademiche americani. Dal 2003 al 2011 sono stati oltre 4 mila gli statunitensi morti in Iraq, e oltre 33mila i feriti. Certo, questo enorme sacrificio, confrontato con le cifre relative all’Iraq fornite dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle nazioni Unite (UNHCR) sembra proprio vano: la guerra ha provocato oltre 400mila vittime irachene, e ora oltre 7 milioni di iracheni (su un totale complessivo di 30) vivono sotto la soglia di povertà, vi sono 4,5 milioni di orfani (molti dei quali vivono in strada); 2 milioni di vedove; 1 milione e mezzo rifugiati in Siria e oltre un milione dispersi all’interno del Paese; inoltre, l’Iraq è balzato al 175 posto su 182 paesi considerati per quanto riguarda il livello di corruzione.
Un bilancio catastrofico.
Come uscirne? Qualcuno, visto il fallimento della centralizzazione, sta invocando la soluzione federale, onde consentire ai diversi gruppi (sunniti, sciiti, curdi) di vivere e autogovernarsi a piacere. Il Curdistan iracheno è già una realtà, peraltro osteggiata per decadi dai sunniti, i quali, ultimamente, stanno riconsiderando l’opzione federalista, tanto che tre province a maggioranza sunnita stanno chiedendo con insistenza l’autonomia. Non va dimenticato che l’Iraq, in quanto stato nazione, fu un’ennesima operazione condotta a tavolino dai britannici che disegnarono i confini del Paese seguendo i propri interessi, fomentando, con la loro politica del “divide et impera” conflitti insanabili tra i diversi gruppi etnico-religiosi.
Nel frattempo, ignorando gli appelli americani, Nouri al-Maliki ha dichiarato d’essere pronto a sganciarsi dal suo partner di governo principale, la colazione a larga componente sunnita Iraqiya, e a governare il Paese solo con la maggioranza sciita.
La risposta non si è fatta attendere, e in un solo giorno a Baghdad si sono contati 12 attentati e 70 morti.
(pubblicato da Giornale di Brescia, 29/12/2011.)