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Iran e nucleare

1000In Iran si festeggia, anche se si respirava aria nuova già prima di questa fatidica firma con i 5+1:la Repubblica Islamica da qualche tempo ha aperto brecce verso l’Occidente, concedendo ai suoi cittadini di recarsi più agevolmente all’estero, favorendo una copiosa affluenza di turisti sull’altopiano (con conseguente rimpinguamento delle proprie casse), riallacciando rapporti culturali con molti paesi europei (soprattutto promuovendo lì mostre d’arte e rassegne cinematografiche) e favorendo l’afflusso di capitali esteri, quest’ultimi allettati da un mercato giovane affamato di mode straniere (leggi, occidentali) dopo decadi di isolamento. Ma la grande speranza, ora, è quella che cadano al più presto le sanzioni che imbrigliano l’economia locale impedendo all’Iran di essere reintegrato in quella globale. L’abbattimento delle sanzioni consentirebbe di abbassare notevolmente l’inflazione e di perseguire la crescita economica, un processo timidamente avviato due anni or sono sotto la presidenza di Hassan Rouhani, il quale risulta il vero vincitore di questo lungo ed estenuante negoziato conclusosi a Vienna. Moltissimi iraniani tributano al Presidente il merito di aver scongiurato la minaccia di possibili bombardamenti e raid missilistici più volte paventati nel corso di questa guerra fredda anti iraniana consumatasi durante le ultime decadi, poiché il ricordo dei veri bombardamenti scatenati contro l’Iran da Saddam Hussein negli anni ’80 è ancora troppo vivo e doloroso.

Ma Hassan Rouhani è stato altresì eletto per le sue promesse di migliorare la situazione rispetto ai diritti umani e ora la società civile iraniana tanto interna quanto in diaspora gli sta chiedendo di varare riforme con lo stesso impegno dimostrato per risolvere la questione del nucleare e della ripresa economica. In particolare, si sollecita Rouhani a sdoganare il diritto al dissenso pubblico e di consentire che a giornalisti, attivisti e semplici cittadini sia permesso di manifestare pubbliche critiche alla leadership politica senza correre il rischio di venire censurati o addirittura incarcerati. Rouhani può ora sfruttare questo successo politico ed economico e ciò spaventa i falchi del regime, suoi nemici, che si sono già messi all’opera contro l’accordo di Vienna, smorzandone le positive conseguenze sulle pagine dei loro giornali cartacei e sul web e chiedendo alla gente di non festeggiarlo, in quanto manifestazioni di pubblica gioia indurrebbero l’opinione internazionale a pensare che gli iraniani sono così disperati da riversarsi in piazza acclamando anche un cattivo accordo e per di più non ancora perfezionato. Quest’appello degli oltranzisti cerca di far leva sul proverbiale nazionalismo persiano, ma è certo che, seppure con qualche scetticismo, la maggioranza degli iraniani vede nell’accordo il preludio di futuri e positivi sviluppi; anzi, è proprio l’orgoglio nazionale a essere ora lusingato, poiché l’intesa raggiunta a Vienna sdogana l’Iran dalla posizione di “stato canaglia” in cui è stato relegato per troppo tempo. Molti iraniani sono altresì consapevoli del fatto che il rientro del Paese nella comunità internazionale è pure dovuto alla posizione di Tehran nettamente sfavorevole alle forze del sedicente Califfato e alla più volte dimostrata volontà delle autorità iraniane di collaborare con quelle internazionali per porre freno all’espansione terrorista le cui armi sono rivolte tanto contro l’Occidente quanto contro l’Iran. In sostanza, sia pure paradossalmente, è proprio la posizione del leader supremo, l’ayatollah Khamenei, che ben riassume il generale atteggiamento degli iraniani; la Guida Suprema, infatti, pur appoggiando l’accordo sul nucleare, ha di nuovo reiterato il monito sulla necessità di mantenere una linea rossa tra l’Iran e l’Occidente onde impedire che quest’ultimo approfitti del caos mediorientale chiedendo l’aiuto iraniano senza dare vantaggi in contraccambio.

 

 

 

 

 

Terrorismo “islamico” e possibili soluzioni

Obama-King-AbdullahDopo l’unanime e globale condanna del sanguinoso attentato di Parigi è ora tempo di trovare strategie per evitare che la guerra che il terrorismo ha dichiarato al mondo civile (e non solo a quello europeo) dilaghi ulteriormente. Inutile chiedere ai cosiddetti musulmani moderati di umiliarsi nelle pubbliche piazze e nei talk show televisivi scusandosi per i terroristi dei quali sono duplici vittime: sia perché sono da essi ammazzati in Siria, Nigeria, Afghanistan, Yemen (ma anche a Parigi e a New York); sia perché dopo ogni atto violento compiuto in nome dell’islam diventano il bersaglio della pubblica indignazione che li ritiene responsabili di ogni male solo perché professano una religione strumentalmente invocata da criminali per giustificare i loro efferati delitti.

Con immutata ipocrisia, gli stati occidentali chiedono ai musulmani migrati fedeltà alla convivenza civile, mentre essi stessi continuano a intessere rapporti politici e soprattutto economici con chi da decadi arma gruppi terroristici al fine di mantenere intatta la propria supremazia in Medio Oriente: l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrein e altri stati del Golfo.

In questi anni i sauditi hanno speso miliardi di dollari per finanziare moschee e scuole coraniche dove si predica l’ostilità anche contro quei musulmani che non si adeguano alla forma dell’islam praticata a Ryadh, soprattutto contro gli sciiti. Non si tratta, ovviamente, solo d’ideologia religiosa, ma di politica: lo sciismo è praticato in maggioranza in Iran, paese rivale che contrasta l’egemonia saudita nel Golfo e oltre. Diffondere l’idea che gli sciiti non sono musulmani ma miscredenti ha contribuito a seminare odio e violenza nell’area mediorientale. I più esagitati, armati dai petrodollari sauditi, addestrati nei campi afgani e pakistani, sono confluiti indisturbati in formazioni quali al Qaeda e l’ISIS, strumentali, tra l’altro, a impedire l’espansione dell’Iran, costituendo un solido fronte contro i suoi alleati quali Assad, e a gettare nel caos l’Iraq, dove la caduta di Saddam aveva momentaneamente favorito la maggioranza sciita filo-iraniana. In questi ultimi 35 anni l’occidente ha aiutato a costruire un cordone sanitario attorno all’Iran chiudendo gli occhi su come le monarchie del Golfo alimentassero un terrorismo che non si limitava ad agire nell’area, ma dichiarava la sua volontà e capacità di esportare la lotta armata nel cuore dell’occidente. Gli Stati Uniti, che pure hanno pagato un enorme tributo di sangue a questa scriteriata politica con il 9/11, rimangono i principali alleati dell’Arabia Saudita e delle monarchie associate, così come l’Europa. E ora gli stati europei, soprattutto Gran Bretagna e Francia che hanno perpetuato il loro passato coloniale tanto all’estero (ricordiamo solo la recente e infelice operazione francese in Libia) quanto in patria, dove il jihadismo si nutre e prospera nell’emarginazione sociale e economica e nell’identificazione con l’umiliazione subita dai musulmani in Palestina, in Siria ecc., sono divenuti serbatoi di violenza pronta a esplodere in ogni momento.

Se continueremo a ignorare le palesi violazioni dei diritti umani nel Golfo, compreso l’accordo delle petrolmonarchie per sedare le richieste di cambiamento che le rivoluzioni arabe hanno inevitabilmente portato anche da loro; se faremo finta che la persecuzione nei confronti degli sciiti non esista; e se ignoreremo il quotidiano massacro dei siriani sperando che si ammazzino tra loro per risolvere il problema, possiamo esser certi che andremo incontro a episodi ben più gravi di quello parigino.

 

da Giornale di Brescia 10/1/2015