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Pakistan e occidente
Il rapimento del cooperante italiano in Pakistan cade in una fase deteriorata delle relazioni con il mondo occidentale. In questi giorni, infatti, il Dipartimento di Stato Usa ha reso nota la richiesta del Governo pakistano di sospendere la visita a Islamabad del rappresentante per Pakistan e Afghanistan, l’ambasciatore Marc Grossman, finché il Parlamento pakistano non avrà rivisto la situazione delle relazioni Usa-Pakistan. Grossman è in missione tra gli Stati del Golfo, con destinazione finale Kabul, per raccogliere consenso ai previsti colloqui di pace coi Talebani.
Il veto alla missione Grossman arriva dopo il braccio di ferro iniziato a novembre, quando Washington ha chiesto a Islamabad di non firmare accordi con l’Iran per il trasporto energetico, scegliendo altri partner asiatici (es. il Turkmenistan). L’«invito» è stato rafforzato dalla minaccia di sanzioni se il Pakistan continuerà i rapporti commerciali con Teheran. Così, sempre a novembre, dopo l’uccisione da parte della Nato di 20 militari pakistani, Islamabad ha risposto bloccando 700 container di cibo destinato agli afghani. Ora Islamabad pare consentire lo sblocco del cargo, anche su pressione di Kabul. Ma la tensione resta. Sorge il dubbio che Islamabad voglia alzare la posta, ribadendo in modo caotico il proprio ruolo nel processo di pacificazione dell’area centrasiatica. Se, come si spera, l’Afghanistan troverà alfine stabilità, i porti pakistani costituiranno lo sbocco più naturale per l’esportazione del fantastico patrimonio minerario afghano; per non parlare dell’obbligato passaggio in Pakistan delle tubazioni del gas dal Turkmenistan all’India. La pacificazione afghana porterebbe dunque immensi benefici al Pakistan.
Per essere un primattore, però, il Pakistan deve prima risolvere le tensioni interne, ad esempio, dimostrando di poter controllare i milioni di rifugiati afghani (ufficialmente 2 milioni, ma, in realtà, almeno il doppio) che vivono in territorio pakistano, fra cui si celano talebani e qaedisti, responsabili di attentati in Pakistan e in Afghanistan. Ma fra i rifugiati si nascondono anche narcotrafficanti che curano il transito di droga dall’Afghanistan all’Occidente: se il Pakistan pensava di essere luogo di transito, s’è dovuto ricredere confrontandosi con le statistiche che vedono il consumo di oppiacei in crescita esponenziale tra la gioventù pakistana.
Islamabad deve pure dimostrare di stroncare le provocazioni di leader politici quali Shahzain Bugti, del Partito per l’indipendenza del Baluchistan, che ha appena annunciato di offrire una taglia (contanti, casa e protezione) a chi uccida l’ex presidente Musharraf, «colpevole» dell’uccisione di molti insorti baluchi quando era capo dell’esercito. Gesto che, non adeguatamente censurato dai pakistani, getta nuove ombre sulla loro credibilità.
questo articolo è comparso sul Giornale di Brescia del 21/1/2012.
Iran, attentati e tensioni interne
L’attentato al fisico nucleare iraniano Mostafa Ahmadi-Roshan si configura come l’ennesimo atto della guerra, non solo verbale, che si sta consumando da parecchio tempo tra l’Iran e il resto del mondo. L’assassinio, infatti, va ad aggiungersi ad una serie di sabotaggi cibernetici ai danni del programma nucleare iraniano, a due misteriose esplosioni all’interno di basi militari che hanno ucciso diversi ufficiali, e all’eliminazione fisica, sempre tramite attentati dinamitardi, di scienziati in forza al programma d’arricchimento dell’uranio in corso in Iran. La Repubblica Islamica punta il dito accusatore verso Israele e Stati Uniti, paesi che ufficialmente hanno negato ogni responsabilità in questa catena di luttuosi eventi; Washington, addirittura, ha ufficialmente condannato l’uccisione di Ahmadi-Roshan.
Il mondo guarda col fiato sospeso a questi accadimenti che sembrano farci precipitare verso la guerra, mentre nei giorni passati qualche debole spiraglio s’era aperto, sia grazie al salvataggio dei marinai iraniani ad opera della marina statunitense (gesto elogiato dalla autorità iraniane), sia, soprattutto, grazie all’apertura del Segretario alla Difesa americana Leon Panetta, il quale, dichiarando inaspettatamente che l’Iran sarebbe ben lontano dall’acquisire la forza nucleare, ha rinnovato l’invito ad una soluzione diplomatica del caso.
Intanto, la stretta delle sanzioni sta facendo il suo corso; anche la Cina ha ridotto notevolmente le proprie importazioni di petrolio iraniano, facendo entrare Tehran in fibrillazione. Il rial, la moneta ufficiale iraniana, ha toccato il suo minimo storico nei confronti del dollaro e il costo della vita continua a crescere: negli ultimi tre mesi il prezzo del latte è aumentato del 20%.
C’è comunque il rischio che le sanzioni non scoraggino Tehran dal perseguire il suo obiettivo nucleare: abbandonarlo ora significherebbe una perdita di prestigio interno incommensurabile. Ma pure il principale contendente iraniano, ovvero gli Stati Uniti, rischia la faccia: Obama non può dimostrarsi timido di fonte alle minacce iraniane, pena la sua non rielezione.
Intanto, in Iran vi è palpabile scontento fra la popolazione e apprensione fra le autorità a circa due mesi dall’appuntamento elettorale. Memore di quanto accaduto nel giugno 2009, la censura si è già organizzata setacciando ogni internet café, rafforzando la sorveglianza sui documenti esibiti dagli utenti e controllando i siti consultati. Oltre alla figlia di Rasfanjani, in questi giorni sono stati fermati dalla polizia altri dissidenti, giornalisti, politici, mentre i leader dell’Onda Verde Mousavi e Karroubi sono agli arresti domiciliari ormai da parecchi mesi. Questa politica intimidatoria è opposta a quella solitamente praticata dal regime, che, alla vigilia di appuntamenti elettorali, è solito liberare dei prigionieri politici e allargare le maglie della censura.
A differenza del 2009, infatti, c’è un ulteriore pericolo per il regime, ovvero l’esempio delle rivolte arabe che, pur ancora in corso, sono comunque riuscite a rovesciare i despoti in carica: un modello esportabile e pertanto assai temuto, anche se, al momento, non vi è traccia di primavera sull’altopiano.
Apparso su Il giornale di Brescia 13/1/2012.
Faezeh Rafsanjani rischia la prigione….
….ma io tifo per lei.
L’Iraq dopo l’uscita degli US: numeri e prospettive
L’Iraq è nuovamente squassato da atti di terrorismo. L’uscita delle forze statunitensi ha indubbiamente contribuito ad acuire il clima di incertezza politica nella quale il Paese arabo è precipitato nei primi anni del 2000, e dal quale non si è più risollevato, se non per brevi periodi. Partite le ultime truppe americane, i contendenti al potere iracheni hanno sollevato anche la sottile maschera di reciproca collaborazione che avevano sfoggiato in precedenza, quella finta promessa di rinunciare ai propri interessi per il bene comune. Negli ultimi giorni alcuni episodi hanno aggravato la crisi, in particolare l’attacco del premier Nouri al-Maliki (shiita) nei confronti del suo vice Tariq al-Hashimi (sunnita), accusato di essere un terrorista. Così, mentre Hashimi stava per imbarcasi in un volo che l’avrebbe portato ad incontrare il leader curdo-iracheno Massoud Barzani, Maliki ne ha impedito la partenza, ha fatto arrestar alcuni membri della sua scorta e ha chiesto la parlamento di sfiduciare Hashimi (ovviamente, senza l’immunità parlamentare, l’arresto di Hashemi sarebbe immediato).
Ovviamente, l’appartenenza religiosa dei due contendenti ha poca importanza, in quanto le rispettive affiliazione religiose (sciita e sunnita) sono solo la copertura di precisi e contrastanti interessi politici.
Ed è per interesse politico-energetico che gli US continuano a monitorare da vicino quanto accade in Iraq, mentre le polemiche sul bilancio finale della missione americana continuano ad occupare media e discussioni accademiche americani. Dal 2003 al 2011 sono stati oltre 4 mila gli statunitensi morti in Iraq, e oltre 33mila i feriti. Certo, questo enorme sacrificio, confrontato con le cifre relative all’Iraq fornite dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle nazioni Unite (UNHCR) sembra proprio vano: la guerra ha provocato oltre 400mila vittime irachene, e ora oltre 7 milioni di iracheni (su un totale complessivo di 30) vivono sotto la soglia di povertà, vi sono 4,5 milioni di orfani (molti dei quali vivono in strada); 2 milioni di vedove; 1 milione e mezzo rifugiati in Siria e oltre un milione dispersi all’interno del Paese; inoltre, l’Iraq è balzato al 175 posto su 182 paesi considerati per quanto riguarda il livello di corruzione.
Un bilancio catastrofico.
Come uscirne? Qualcuno, visto il fallimento della centralizzazione, sta invocando la soluzione federale, onde consentire ai diversi gruppi (sunniti, sciiti, curdi) di vivere e autogovernarsi a piacere. Il Curdistan iracheno è già una realtà, peraltro osteggiata per decadi dai sunniti, i quali, ultimamente, stanno riconsiderando l’opzione federalista, tanto che tre province a maggioranza sunnita stanno chiedendo con insistenza l’autonomia. Non va dimenticato che l’Iraq, in quanto stato nazione, fu un’ennesima operazione condotta a tavolino dai britannici che disegnarono i confini del Paese seguendo i propri interessi, fomentando, con la loro politica del “divide et impera” conflitti insanabili tra i diversi gruppi etnico-religiosi.
Nel frattempo, ignorando gli appelli americani, Nouri al-Maliki ha dichiarato d’essere pronto a sganciarsi dal suo partner di governo principale, la colazione a larga componente sunnita Iraqiya, e a governare il Paese solo con la maggioranza sciita.
La risposta non si è fatta attendere, e in un solo giorno a Baghdad si sono contati 12 attentati e 70 morti.
(pubblicato da Giornale di Brescia, 29/12/2011.)
Shirin Ebadi parla agli iraniani
Quando La Nobel 2003 per la Pace parla ai propri connazionali i toni sono diversi: leggi
Streghe saudite
“Noi” e le elezioni democratiche in Egitto
un mio commento nel Giornale di Brescia del 6/12/2011:
Il risultato della prima tornata elettorale egiziana è un tassello che va a comporre il mosaico del nuovo assetto del nord Africa e conferma la volontà delle popolazioni locali di avere governi che si ispirino ai principi islamici, in forma più meno accentuata. E’ un dato di fatto del quale dobbiamo prendere atto tanto noi occidentali quanto i “laici” sconfitti nelle recenti elezioni in Tunisia, Marocco e ora Egitto: la democrazia non dà risultati graditi a tutti, ma la volontà espressa dalla maggioranza va accettata. Piuttosto, proviamo a vedere perché anche in Egitto i frutti della rivoluzione di piazza della “primavera araba”, scatenata e movimentata perlopiù da attori laici, siano stati poi raccolti da partiti religiosi.
All’euforia libertaria del gennaio scorso in Egitto sono progressivamente subentrati sentimenti di delusione e instabilità: le condizioni economiche del Paese si sono aggravate, con conseguente aumento di crimini e l’instaurarsi di uno stato di insicurezza generale diffusosi soprattutto nelle aree urbane (ovvero, quelle maggiormente coinvolte nelle proteste di piazza). Ciò ha provocato maggiori disordini, con conseguente intervento della polizia e dell’esercito: quest’ultimo, che in un primo tempo sembrava essersi fatto in disparte rivestendo un ruolo di puro garante delle istituzioni, ha così acuito il sospetto di voler rivendicare un ruolo dispotico anche nel post elezioni.
Al contempo, i partiti laici hanno dato prova della loro mancanza d’affidabilità dando luogo a una miriade di coalizioni destinate a sciogliersi sul nascere e che hanno insospettito e allontanato l’elettorato.
In questo marasma il Partito della Libertà e Giustizia ha consolidato la sua politica fatta di assistenzialismo e aiuto pratico alla popolazione. Vero è che il partito si è costituito solo nel maggio scorso (in quanto prima ogni associazione partitica indetta dai Fratelli Musulmani era fuori legge: ecco un altro effetto della democrazia!), ma ben si sa come i Fratelli Musulmani vantino una efficientissima rete di assistenza ospedaliera, scolastica, di supporto per i disoccupati ecc. costruita in oltre 70 anni. Così, invece di apparire alla televisione o via internet, il loro partito ha fatto campagna elettorale girando per quartieri poveri e baraccopoli, servendosi della fitta rete di moschee e di organizzazioni caritatevoli con le quali c’è mutuo appoggio e collaborazione.
Non si pensi, però, che il Partito della Libertà e Giustizia sia rivolga solo alle masse indigenti e/o ignoranti, perché nelle sue fila militano professionisti di ogni tipo (anche se quelli che occupano posti governativi sono pagati con stipendi insufficienti ad arrivare a fine mese), nonché imprenditori, commercianti ecc.
Ora, il Partito ha vinto questa prima tappa di un lungo processo elettorale che consta di varie fasi, e si concluderà solo nella prossima primavera; ma si tratta di una tappa cruciale, che ha visto coinvolto l’elettorato della grandi metropoli, quali Cairo e Alessandria (quest’ultima da sempre una roccaforte del Fratelli), per cui è facile prevedere che i prossimi risultati, provenienti dalle aree rurali, confermeranno questo dato.
Egitto come Tunisia e Egitto, insomma, ma con una variante: nel paese dei faraoni sta emergendo con prepotenza un attore assai più inquietante dei Fratelli Musulmani, ovvero, il Partito Salafita al Nur, dichiaratamente reazionario e intollerante, sostenuto da ingenti fondi sauditi. I vicini prossimi appuntamenti elettorali schiariranno quest’incerto panorama.
Una separazione iraniana, un bellissimo film
Una mia recensione di “Una separazione” del regista iraniano Asghar Farhadi in Spazio Critico , n. 1.
http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/54233
Marocco: errori ‘reali’ e voglia di democrazia
Una versione di questo articolo è uscito nel Giornale di Brescia del 27/11/2011:
Le elezioni parlamentari avvenute in Marocco hanno confermato la tendenza dei paesi nord africani ad appoggiare partiti islamici moderati. Dopo il risultato tunisino del mese scorso, la vittoria del partito islamico marocchino sicuramente non sorprende: né, conoscendo gli antefatti, dovrebbe sorprendere la scarsa affluenza alle urne (solo il 45% degli oltre 13 milioni aventi diritto di voto), diserzione non certo imputabile ad una presunta carenza di spirito democratico nei marocchini, ma proprio al suo contrario. Anche i marocchini sono scesi in piazza lo scorso inverno chiedendo riforme e democrazia, e la protesta di moltissimi giovani e di qualche partito d’opposizione si è coagulata in un movimento, il “Movimento 20 febbraio”, il cui slogan è “dignità, libertà, giustizia sociale”. Il gruppo ha avuto da subito vita difficile e le sue pubbliche manifestazioni a cadenza settimanale sono state ostacolate dalla polizia: forse perché la principale rivendicazione è quella di porre fine al monopolio politico-economico detenuto dalla corte reale e dai suoi protegé.
Gli aderenti al “Movimento 20 febbraio” non si sono lasciati ingannare dalla piattaforma di riforme proposte da Mohammad VI che hanno definito “un superficiale maquillage”: domenica 20 novembre sono tornati nelle principali piazze chiedendo ai connazionali di boicottare il voto e riproponendo la propria lista di riforme, in cui si richiede, tra l’altro, la liberazione dei prigionieri politici, fra i quali spicca il giovane rapper Mouad Belrhounate, in carcere dallo scorso settembre per aver scritto una canzone in cui contesta l’assoluto potere del re.
Il boicottaggio, comunque, è stato praticato anche da chi non aderisce al “Movimento 20 febbraio”: interviste a gente comune hanno confermato la disaffezione a partiti che presentano da trent’anni gli stessi candidati e che sono rei di corruzione (fra cui spicca il Partito Socialista, al governo dal 1998 e coinvolto in numerosi scandali); o, che, comunque, hanno contribuito all’inasprimento della situazione economica del Paese, il cui debito estero è cresciuto ulteriormente in quest’ultimo periodo. Anche la coalizione “G8”, nata per contrastare il partito islamico moderato mettendo insieme politici dalla natura e dal profilo diversissimi, ha ulteriormente disgustato l’elettorato marocchino che l’ha definita “una cricca di opportunisti”, destinati, oltretutto, al suicidio politico.
Nonostante Mohammad VI e molti suoi sostenitori, anche stranieri, fino a ieri parlassero dell’ “eccezione del Marocco”, il paese maghrebino non può rimanere immune dall’ondata di cambiamento che squassa gli altri paesi arabi, perché non solo condivide tutti i problemi degli altri stati in rivoluzione, ma in più è caratterizzato da un tasso di analfabetizzazione (oltre il 56% degli adulti non sa né leggere né scrivere), di disoccupazione e di mancanza di protezione sociale (il 70% non possiede una polizza per assistenza sanitaria) e di povertà (circa il 30% della popolazione non ha a disposizione né acqua corrente né elettricità) superiore a molti altri.
Un piccolo segnale di cambiamento, comunque, queste elezioni l’hanno introdotto: ora Mohammad VI dovrà nominare il Primo Ministro tra le fila del partito che ha conseguito il maggior numero di seggi, non più, come in passato, nominando qualcuno a suo esclusivo capriccio.