Iraq, elezioni, petrolio e acqua

2013-10-12.si

L’Iraq si avvia alla sua prima elezione parlamentare da quando nel 2011 le truppe statunitensi hanno lasciato il Paese, in un clima di grande instabilità e fra attentati terroristici che mettono quotidianamente a repentaglio la vita dei cittadini. Scontri fra opposte fazioni e atti criminali compiuti soprattutto dal gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, vicino ad al Qaeda, hanno già accumulato l’impressionante record di oltre 2800 morti solo dall’inizio dell’anno, procedendo a un ritmo che ricorda quello preoccupante realizzato lo scorso anno, quanto le vittime furono quasi 8mila. Pertanto, mentre pare scontata la conferma alle urne del partito dello sciita Nouri al Maliki, che guida il Paese dal 2006, sembra altrettanto prevedibile che l’attuale Primo Ministro dovrà accordarsi con altre forze, quali gli esponenti di quei partiti sciiti che contestano ad al Maliki l’incapacità di porre fine agli attacchi che colpiscono soprattutto la loro comunità.

Quest’ultima decade di violenza conferma, tra l’altro, l’imprescindibile necessità di costruire un modello istituzionale assai più decentralizzato rispetto a quello attuale; la distribuzione delle risorse petrolifere, ad esempio, è una chiara prova dell’incapacità del governo di accordarsi in modo soddisfacente con le comunità locali maggiormente coinvolte nell’estrazione del greggio, quale quella curda nel nord del Paese, con conseguente inasprimento dei rapporti tra Baghdad e il Governo Regionale Curdo.

Altro punto dolente nella gestione di al Maliki è il suo sospetto coinvolgimento negli attentati contro alcuni suoi opponenti sunniti; se anche questa gravissima accusa fosse infondata, rimane comunque provato che l’autoritaria politica del Primo Ministro ha scavato un ulteriore solco tra le maggiori comunità del Paese (sciita, sunnita, curda), trasformando sempre più la politica irachena in un conflitto tra gruppi etnico/religiosi. L’Iraq pare così avviato alla frammentazione, mentre avrebbe bisogno di un modello di federalismo capace di puntare all’inclusione dei diversi gruppi e alla decentralizzazione amministrativa. Ma al Maliki sembra poco propenso ad allentare la presa dispotica, giustificata, al solito, quale arma contro il terrorismo, il male maggiore da cui l’Iraq è ora affetto, anche se le sue misure non sembrano avere grandi risultati. Il gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, infatti, è in grado di tenere testa all’esercito regolare e controlla l’area strategica della città di Falluja, e, in particolare, la sua diga, trasformando l’acqua – risorsa ancor più cruciale del petrolio- in un’arma di ricatto e ritorsione nei confronti tanto del governo quanto delle comunità locali, e provocando una vera e propria crisi dell’acqua. I terroristi hanno infatti provocato l’inondazione dei terreni nei pressi di Baghdad, bombardando, contemporaneamente, l’oleodotto che conduce il petrolio fino in Turchia. Al Maliki risponde con brutale atrocità nei confronti anche di sospetti terroristi (provate da video, girati pure dalle forze regolari), al punto che si registra un’alta percentuale di defezioni all’interno dell’esercito iracheno.

Risulta chiaro, quindi, che la spirale di violenza in cui si dibatte l’Iraq deve trovare una soluzione politica; e se, come auspicabile, queste elezioni avranno successo, dimostrando la fede degli iracheni nelle istituzioni, al Maliki dovrà mettersi subito al lavoro, per sviluppare un sistema federale volto non solo a rallentare la tensione nel suo Paese, ma anche potrebbe pure costituire un significativo esempio nell’area.

da Giornale di Brescia 29/4/2014

Bouteflika 4°?

L’Algeria s’appresta a confermare per la quarta volta il suo Presidente in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika. Il super candidato è praticamente aspirante unico alla Presidenza, nonostante l’età e gli innumerevoli malanni da cui è affetto, tanto da far dubitare tutti che, in caso di rielezione, possa concludere di persona il mandato quinquennale.

Bouteflika rappresenta il grande conciliatore che, alla fine della decade nera che negli anni ’90 segnò il Paese con oltre 200mila morti, ricucì le istituzioni algerine, favorendo il processo di pacificazione e promettendo riforme in chiave democratica mai realizzate a pieno. Fu Bouteflika a riallacciare proficui rapporti con l’Occidente, il quale, non va dimenticato, pur di assicurarsi l’accesso alle ingenti risorse energetiche di cui l’Algeria dispone, da almeno quindici anni ha chiuso gli occhi su quanto accade sulla sponda africana del Mediterraneo, pago del fatto che il regime algerino garantisce una sorta di “pax islamica” (sedando i movimenti di matrice islamista) sul prezzo della quale non bisogna andare troppo per il sottile.

Vero è che pure gli algerini, o, almeno, una parte di loro, sembrano aver privilegiato la stabilità offerta dal patto fra Bouteflika e i poteri forti (esercito, apparato di sicurezza e la Sonatrach, la potente agenzia di Stato che controlla le risorse energetiche) a discapito della realizzazione del processo democratico iniziato decadi fa, quando l’Algeria si liberò del giogo coloniale francese. Infatti, anche se il Paese continua a essere teatro di pressoché quotidiani scioperi, soprattutto nel settore pubblico, il regime è finora riuscito a mantenere il controllo elargendo di volta in volta piccole concessioni ai manifestanti. È così l’Algeria non è stata investita dall’onda delle rivoluzioni che da oltre tre anni stanno stravolgendo gli equilibri dell’ampia zona che va dal Marocco al Medio Oriente. Le “primavere arabe” hanno finora solo lambito il Paese, ancora traumatizzato dalle ferite inferte nella guerra degli anni ’90 e dove, se l’esempio positivo della vicina Tunisia infiamma i dissidenti, quello caotico dell’altrettanto confinante Libia scoraggia dall’intraprendere una “primavera algerina”.

E ciò nonostante vi siano tutti i presupposti che hanno scatenato le altre rivoluzioni, dalla corruzione al dispotismo, dalla crisi economica a quella occupazionale, soprattutto nel settore giovanile.

Comprensibile, quindi, che una parte della società civile si sia ribellata, fondando un movimento di aperta contestazione a quest’ennesima elezione-burla chiamato Barakat (Basta!), nato proprio in occasione dell’annuncio della candidatura di Bouteflika. Finora il gruppo non è riuscito a richiamare grandi folle nelle sue proteste di piazza (peraltro bandite per decreto dal 2001), ma evidentemente l’establishment non vuole correre il minimo rischio e ha arrestato, tra gli altri, uno dei co-fondatori di Barakat, la ginecologa Amira Bouraoui, mentre ha chiuso l’emittente televisiva Al Atlas, rea di appoggiare l’opposizione.

Gli aderenti a Barakat non sono ovviamente gli unici ad opporsi al “regno” di Bouteflika e a quello che egli rappresenta, anche i leader dei gruppi islamici hanno invocato il boicottaggio di queste elezioni, ma l’abbraccio tra la compagine “laica” e quella “religiosa” è più che mai improbabile, visto il recente passato algerino. Tuttavia, qualsiasi sia il risultato elettorale, il vincitore dovrà fare i conti con uno scontento popolare sempre più intenso, difficilmente controllabile con l’uso della sola forza e della corruzione.

da Giornale di Brescia 17/4/2014

Il memoriale di Taj as-Soltaneh, principessa Qajar (Iran)

41zOFiHFcmL._BO2,204,203,200_PIsitb-sticker-v3-big,TopRight,0,-55_SX278_SY278_PIkin4,BottomRight,1,22_AA300_SH20_OU01_Taj as-Soltaneh, principessa della casa reale Qajar (fine XVIII- inizi del XX secolo) è la prima donna d’Iran di cui ci resta un diario. Il racconto della sua vita ci offre un’inusuale prospettiva sui profondi cambiamenti che sconvolsero la società iraniana a cavallo tra i due secoli. Le pagine di questa narrazione ci traghettano dal dorato quanto angusto harem reale al movimento femminista d’Iran di cui Taj as-Soltaneh fu una delle prime animatrici.

a cura del Centro Essad Bey

http://www.amazon.it/Memorie-una-principessa-persiana-Qajar-ebook/dp/B00JO8ML4C/ref=sr_1_8?s=books&ie=UTF8&qid=1397549294&sr=1-8&keywords=vanzan+anna

 

Afghanistan, elezioni e ricatto Taleban

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Gli afghani sono chiamati alle urne per scegliere il nuovo Presidente. Le proiezioni danno come favoriti nella rosa di undici candidati Abdullah Abdullah, ex Ministro degli Esteri, e Ashraf Ghani, già Ministro delle Finanze, rivali in quella che, per molti aspetti, è la tornata elettorale più significativa della storia afgana dopo la caduta del regime dei Taleban. E non tanto per il risultato in sé, quanto per la modalità con cui si svolgeranno le elezioni e per la situazione che si verificherà dopo il voto.

Nel Paese in cui, dopo oltre dodici anni di permanenza, la Forza Internazionale (ISAF) si appresta a togliere definitivamente le tende, l’appuntamento del 5 aprile è soprattutto un test per verificare il processo di democratizzazione dell’Afghanistan, l’attendibilità delle sue istituzioni e il grado di sicurezza di cui possono godere i cittadini che vogliano esercitare i diritti politici.

I precedenti non sono confortanti: nella tornata elettorale del 2009, proprio l’aspirante Presidente Abdullah Abdullah abbandonò la competizione dopo la prima tornata accusando il rivale Karzai di brogli elettorali. E per evitare, o, almeno, per limitare la possibilità di brogli, in questi anni le istituzioni afgane hanno compiuto un lungo e laborioso processo, riscrivendo la legge volta a formare le commissioni elettorali in base a criteri democratici, chiamando all’appello membri della società civile come docenti, segretari dei maggiori partiti, membri dell’apparato giudiziario, parlamentari. Tuttavia, nonostante la buona volontà dei singoli, la fragilità delle istituzioni afgane rimane tale, soprattutto perché lo stato non è capace di garantire la loro funzionalità, in quanto non è in grado di proteggere la sicurezza personale dei suoi attori. La strategia talebana di colpire proprio i leader delle istituzioni, dai segretari dei partiti politici a quei religiosi che non si conformano all’islam creato dai Taleban, ha dato in suoi nefasti frutti: lo scorso anno la missione ONU in Afghanistan ha dichiarato che, pur essendo diminuito il numero dei civili periti per mano talebana, è esponenzialmente aumentato quello dei funzionari di stato, dei leader di comunità, delle personalità impegnate nel processo di pace, scientemente eliminai. I Taleban non hanno più bisogno di eclatanti combattimenti, basta loro prendere di mira con precisione chi agisce da parte del governo per screditarlo e convincere la popolazione a non collaborare con le istituzioni. I Taleban sanno che, con la dipartita della ISAF, il tempo è dalla loro parte; certo, l’ISAF ha addestrato circa 350mila afgani che rimarranno a proteggere la popolazione, ma basteranno, visto che non più tardi di quattro giorni fa un commando suicida si è fatto esplodere all’interno del Ministero della Difesa di Kabul provocando sei morti?

Apparentemente per ovviare a questa situazione, l’uscente Presidente Karzai in questi ultimi tempi s’è avvicinato ai Taleban, tentando di coinvolgerli nella costruzione del Paese; la maggioranza dei Taleban però è contraria alle elezioni, che ritengono illegittime, e ha già invitato la popolazione a distruggere i certificati elettorali.

Tuttavia, anche il fronte talebano presenta incertezze, non essendo più compatto come un tempo; parte dei Taleban potrebbe invece attendere l’esito elettorale, confidando nel successo di un candidato disposto poi a negoziare un accordo a loro favorevole.

 

da Giornale di Brescia 5/4/2014