L’Iraq si avvia alla sua prima elezione parlamentare da quando nel 2011 le truppe statunitensi hanno lasciato il Paese, in un clima di grande instabilità e fra attentati terroristici che mettono quotidianamente a repentaglio la vita dei cittadini. Scontri fra opposte fazioni e atti criminali compiuti soprattutto dal gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, vicino ad al Qaeda, hanno già accumulato l’impressionante record di oltre 2800 morti solo dall’inizio dell’anno, procedendo a un ritmo che ricorda quello preoccupante realizzato lo scorso anno, quanto le vittime furono quasi 8mila. Pertanto, mentre pare scontata la conferma alle urne del partito dello sciita Nouri al Maliki, che guida il Paese dal 2006, sembra altrettanto prevedibile che l’attuale Primo Ministro dovrà accordarsi con altre forze, quali gli esponenti di quei partiti sciiti che contestano ad al Maliki l’incapacità di porre fine agli attacchi che colpiscono soprattutto la loro comunità.
Quest’ultima decade di violenza conferma, tra l’altro, l’imprescindibile necessità di costruire un modello istituzionale assai più decentralizzato rispetto a quello attuale; la distribuzione delle risorse petrolifere, ad esempio, è una chiara prova dell’incapacità del governo di accordarsi in modo soddisfacente con le comunità locali maggiormente coinvolte nell’estrazione del greggio, quale quella curda nel nord del Paese, con conseguente inasprimento dei rapporti tra Baghdad e il Governo Regionale Curdo.
Altro punto dolente nella gestione di al Maliki è il suo sospetto coinvolgimento negli attentati contro alcuni suoi opponenti sunniti; se anche questa gravissima accusa fosse infondata, rimane comunque provato che l’autoritaria politica del Primo Ministro ha scavato un ulteriore solco tra le maggiori comunità del Paese (sciita, sunnita, curda), trasformando sempre più la politica irachena in un conflitto tra gruppi etnico/religiosi. L’Iraq pare così avviato alla frammentazione, mentre avrebbe bisogno di un modello di federalismo capace di puntare all’inclusione dei diversi gruppi e alla decentralizzazione amministrativa. Ma al Maliki sembra poco propenso ad allentare la presa dispotica, giustificata, al solito, quale arma contro il terrorismo, il male maggiore da cui l’Iraq è ora affetto, anche se le sue misure non sembrano avere grandi risultati. Il gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, infatti, è in grado di tenere testa all’esercito regolare e controlla l’area strategica della città di Falluja, e, in particolare, la sua diga, trasformando l’acqua – risorsa ancor più cruciale del petrolio- in un’arma di ricatto e ritorsione nei confronti tanto del governo quanto delle comunità locali, e provocando una vera e propria crisi dell’acqua. I terroristi hanno infatti provocato l’inondazione dei terreni nei pressi di Baghdad, bombardando, contemporaneamente, l’oleodotto che conduce il petrolio fino in Turchia. Al Maliki risponde con brutale atrocità nei confronti anche di sospetti terroristi (provate da video, girati pure dalle forze regolari), al punto che si registra un’alta percentuale di defezioni all’interno dell’esercito iracheno.
Risulta chiaro, quindi, che la spirale di violenza in cui si dibatte l’Iraq deve trovare una soluzione politica; e se, come auspicabile, queste elezioni avranno successo, dimostrando la fede degli iracheni nelle istituzioni, al Maliki dovrà mettersi subito al lavoro, per sviluppare un sistema federale volto non solo a rallentare la tensione nel suo Paese, ma anche potrebbe pure costituire un significativo esempio nell’area.
da Giornale di Brescia 29/4/2014