Una donna capo del governatorato di Bushehr

11_9.jpg.815x390_q85_crop_upscaleLa trentaseienne Maryam Qorbani, specializzata in sviluppo urbano, è la nuova governatora del distretto di Busher, nell’Iran meridionale. Diventano così quattro le donne a capo di governatorati nella Repubblica Islamica d’Iran, a conferma della sensibilità alle istanze di genere da parte del Presidente, Hassan Rouhani. La nomina di Maryam Qorbani sfata altresì il mito di un Iran a due marce dove solo il nord (Tehran) costituirebbe un polo di modernità. La regione di Bushehr conferma così la sua pluricentenaria storia di vocazione al progresso e all’avanzamento dei diritti delle donne.

Nigeriane pedine di guerra

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I Boko Haram che tengono in ostaggio centinaia di ragazze in Nigeria sono attivi da fine anni 1990. Il loro nome, che nella lingua locale hausa significa “istruzione occidentale illecita” riflette i loro obiettivi principali, ovvero l’abolizione di processi che essi considerano frutto della cultura occidentale, quali l’istruzione laica e i processi elettorali, e l’instaurazione di uno stato islamico. Il loro leader, Mohammad Yusuf, ha fondato scuole dove molti nigeriani contrari all’educazione laica hanno per anni mandato i loro figli, ma che costituivano altresì delle palestre di terrorismo.

Ma perché le donne sono diventate ora le loro principali pedine? Nel 2009 i Boko Haram hanno visto la loro leadership decapitata dalle forze governative: centinaia di militanti, incluso Yusuf, sono stati uccisi senza processo e in modo spettacolarmente crudele, e molte donne legate ai Boko Haram sono state incarcerate e/o uccise. Da quel momento, i Boko Haram hanno cambiato tattica, dando avvio a una serie di rapimenti, inclusi quelli delle mogli degli ufficiali governativi, usandole come merce di scambio per far liberare i loro militanti prigionieri. Mentre sotto il nuovo leader, Abubakar Shekau, i Boko Haram diventavano più sofisticati modellandosi secondo il terrorismo in franchising di al Qaeda, anche i loro obiettivi si internazionalizzavano, grazie al bombardamento del quartiere ONU nella capitale Abuja e al rapimento di una famiglia francese avvenuto l’anno scorso in Camerun.

Negli ultimi due anni, i rapimenti di donne da entrambi le parti si ripetono con sconcertante frequenza; le mogli di alcuni capi dei Boko Haram sono tuttora in carcere, e il recente rapimento delle duecento ragazze dalla scuola di Chibok è stato ideato principalmente per costringere il governo a restituire ai terroristi le loro donne. In questo braccio di ferro per dimostrare il potere, i Boko Haram volutamente proiettano la loro immagine di guerrieri “islamici” la cui ideologia impone che le donne cristiane vadano convertite e considerate bottino di guerra. Il loro misoginismo colpisce tanto le donne della loro comunità, ritenute utili solo per la procreazione, il mantenimento quotidiano della comunità e la soddisfazione dei bisogni sessuali, quanto e soprattutto quelle cristiane, queste ultime simbolo del potere e dell’influsso occidentale che i Boko Haram combattono. Tuttavia, il machismo di questi terroristi non preclude loro di travestirsi da donne, quando serve, tanto che alcuni di loro sono stati scoperti e uccisi mentre trasportavano armi sotto lunghi veli.

In un contesto in cui le donne sono stabilmente vittime di abusi d’ogni tipo e le leggi dello Stato piene di discriminazione nei loro confronti, non desta meraviglia che esse costituiscano l’obiettivo principale delle violenze settarie. Anche se i Boko Haram non detengono il monopolio della violenza contro le donne che in Nigeria, rimane endemica, trans etnica e trans religiosa, non vi è dubbio che in questo conflitto essi strumentalizzino le donne in senso ideologico e strategico, nonché per ottenere vantaggi economici tramite il riscatto.

 

da Giornale di Brescia 14/5/2014

L’India e la questione della violenza sulle donne

images Treccani, atlante geopolitico: http://www.treccani.it/geopolitico/paesi/india.html

La morte di una studentessa dell’Università di Delhi avvenuta a seguito di uno stupro di gruppo nel dicembre 2012 ha provocato sdegno e ira tra la società civile indiana. Nel Paese del “miracolo economico” vigono ancora molte norme sociali, comportamenti e attitudini che contribuiscono al mantenimento di una cultura della violenza perpetuata contro le donne. Tale atteggiamento misogino affonda le radici nell’India feudale e patriarcale che ha sublimato come modelli femminili figure della mitologia hindu (quali Sitra e Savitri), le cui qualità consistono nell’assoluta e cieca devozione ai propri mariti, alla morte dei quali esse dovrebbero immolarsi bruciando sulla pira (sati), rituale abolito ufficialmente da circa due secoli, ma che in qualche seppur raro contesto ha continuato ad essere praticato. D’altro canto, la comunità musulmana, che, seppure cospicua, si sente schiacciata numericamente dalla maggioranza hindu, rafforza la propria identità rendendo le donne veri e propri marcatori culturali, al punto da isolarle dalla sfera sociale (purdah) pur di preservarle da possibili “scandali”. Tale divisione etnico-religiosa tra le due principali comunità del Paese comporta, tra l’altro, la mancata unione d’intenti tra i due rispettivi movimenti femminili, il cui sforzo verso obiettivi comuni è spesso vanificato da preoccupazioni di lealtà verso il gruppo d’appartenenza anziché verso l’acquisizione di diritti in quanto donne. La violenza contro le indiane inizia prima ancora della loro nascita: com’è noto, infatti, l’amniocentesi e altri esami concepiti per effettuare diagnosi prenatali vengono usati per disfarsi di feti femminili, riducendo in modo drastico la percentuale di neonate. Così le famiglie si liberano alla radice dell’onere di dover provvedere alla dote matrimoniale delle figlie. La dote, peraltro, divine ennesimo pretesto di violenza contro le spose, le quali sono vittime di “incidenti” domestici, spesso architettati da mariti e suocere che intendono così ricattare la famiglia d’origine della donna onde ottenere una dote più cospicua; oppure, che vogliono liberarsi della sposa per impalmarne un’altra dotata di maggiori mezzi economici. Ad aggravare questa situazione si aggiunge la lenta e riluttante risposta delle autorità al problema della violenza; basti pensare che, nonostante il movimento femminista abbia posto la violenza come obiettivo primario di lotta fin dagli anni ’70, solo nel 2005 il governo indiano ha promulgato una legge (Protection of Women from Domestic Violence Act) che finalmente prende una decisa posizione nei confronti delle violenze domestiche, tanto fisiche quanto psicologiche. E ciò, dopo che nel 2001 aveva emanato un altro provvedimento legislativo in cui, tra l’altro, si esprimeva a favore della donna maltrattata solo nei casi di “violenza prolungata”, concedendo al marito l’immunità qualora questi avesse reagito a “minacce nei propri confronti”. Tuttavia, la legge del 2005 è ancora insufficientemente implementata, per vari motivi, tra i quali spiccano l’insensibilità delle autorità di polizia cui le donne si recano per sporgere denuncia, e la complicità patriarcale dei medici addetti a riscontrare le prove di violenza fisica, i quali spesso si rifiutano di redigere il rapporto. Inoltre, la stragrande maggioranza delle donne dopo il matrimonio si reca a vivere nella casa maritale assieme ai suoceri; pertanto, anche nel caso in cui la donna trovi il coraggio di denunciare il marito e il tribunale lo allontani, la vittima rimane comunque esposta alla vendetta dei familiari acquisiti. Nel caso, invece, che sia lei ad andarsene, superando la paura dello stigma sociale per l’ “abbandono” del tetto coniugale tornando a quello d’origine, si trova spesso esposta al biasimo della propria famiglia, perché la violenza domestica continua ad essere considerata un affare privato, da non denunciarsi in pubblico in quanto, paradossalmente, discredita e arreca disonore alla vittima e alla sua famiglia. Gli stessi limiti e contraddizioni sono ben presenti pure nella legislazione tesa a punire e arginare lo stupro, che non criminalizza, però, quello coniugale. Nonostante, infatti, le pressioni della società civile a seguito del luttuoso evento del dicembre 2012 abbiano portato a una revisione degli articoli del Codice Penali riguardati lo stupro, l’ Anti Rape Bill in vigore dall’aprile 2013, pur introducendo alcune importanti novità (quale, ad esempio, l’aumento di pena per alcuni reati a sfondo sessuale, per gli attacchi con acidi, per lo stalking e il voyeurismo) non penalizza il sesso non consensuale imposto alla moglie. Il giudizio critico con cui le associazioni per i diritti delle donne hanno accolto la nuova legge sembra purtroppo confermato da una raffica di stupri avvenuti in India proprio dopo la sua approvazione. Ciò conferma che, oltre alle leggi, deve radicalmente cambiare l’attitudine patriarcale nei confronti delle donne; al contempo, il governo indiano deve mantenere le proprie promesse realizzando il piano di aiuti economici e sociali per le vittime e le possibili vittime di odiosi crimini sessuali, promesso nel febbraio 2013 e mai avviato.