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Ancora sulle Saudite: anzi, su Abdullah Abdul Aziz

Una mia analisi sul Giornale di Brescia del 26 settembre:

Abdullah Abdul Aziz, sovrano dell’Arabia Saudita, ha ceduto: le donne potranno entrare a far parte della Shura, il Consiglio consultivo del regno, a partire dalla prossima sessione. Non solo, le saudite potranno candidarsi alle prime elezioni municipali (le uniche a svolgersi nel Paese arabo), ma non alle prossime, che si svolgeranno a fine settimana, ma nella successiva tornata, fra tra quattro anni circa.

La notizia è senza dubbio positiva, anche se non sufficiente a prevedere un rapido e roseo cammino per i diritti delle donne nell’ultra conservatore paese saudita: verrebbe infatti da chiedersi come si recheranno a svolgere le proprie mansioni politiche le consigliere elette, visto che non possono guidare, mentre le poche papabili all’incarico, inserite nel mondo del lavoro, lottano quotidianamente per farsi largo in una società ferocemente patriarcale, dove, ad esempio, una donna avvocato per recarsi in aula deve essere accompagnata da una figura maschile.

Questa graziosa concessione di Sua Maestà, comunque, rivela l’ansia che s’è impadronita dell’élite saudita, che non può più pensare di governare in modo autocratico e dispotico in quanto custode dei luoghi sacri dell’islam. Evidentemente, anche qui la primavera araba inizia a dare i primi frutti, dopo che nella prima fase di ribellione, la corte saudita aveva commesso alcuni passi falsi. Infatti, dopo aver chiaramente appoggiato Mubarak, ha offerto manforte al collega Khalifa al fine di contrastare militarmente la protesta dei cittadini del Bahrein, perlopiù sciiti. Queste due azioni hanno provocato enorme malcontento tra i sauditi, soprattutto tra gli sciiti, da sempre oggetto delle angherie della corona saudita.

Tuttavia, Abdullah Abdul Aziz è riuscito ad assestare due colpi a suo favore in poco tempo: il primo, agli inizi di agosto, quando si è erto a difensore dei siriani, attaccando violentemente il presidente Bashar al Assad per i ripetuti massacri; il secondo, grazie all’annuncio odierno di apertura politica nei confronti delle sue suddite.

Ovviamente in entrambi i casi si tratta di un calcolo politico. Se con l’attacco alla Siria la monarchia saudita intende colpire il suo principale nemico, l’Iran (che, al momento, costituisce l’alleato più sicuro per Bashar al Assad), cercando di contrastarne la crescente egemonia nell’area, con la concessione del voto alle donne il vecchio Abdullah Abdul Aziz cerca di calmare la montante protesta interna.

Infatti, pure l’Arabia Saudita soffre degli stessi problemi socio economici che hanno scatenato le proteste nel resto del mondo arabo: nonostante, infatti, il Paese sia assai più ricco di risorse (leggi, petrolio) rispetto alle altre realtà in rivoluzione, la sua giovane popolazione soffre di disoccupazione e di sotto occupazione. Le statistiche ufficiali parlano del 13% dei Sauditi sotto la soglia di povertà. E pure chi può contare su uno stipendio medio non se la passa bene: un commesso guadagna circa 800$ al mese, ma ce ne vogliono almeno 25mila per poter affrontare le spese di un matrimonio. Con il 60% della popolazione al di sotto dei 30 anni, questi problemi rischiano di divenire esplosivi. Per non parlare delle limitazioni alla libertà personale, di cui fanno le spese soprattutto le donne.

Alla monarchia saudita, insomma, urgono alcune operazioni di maquillage, e, con l’attenzione internazionale puntata soprattutto sul mondo femminile, ha deciso di uscire allo scoperto proprio con una “riforma” che, apparentemente, favorisce proprio le donne.

Il governo turco e le donne

 

Nei primi cinque mesi di quest’anno in Turchia sono morte cento donne a causa di violenze domestiche, quasi una al giorno, una media impressionante che ha convinto il presidente Gül di incaricare un’apposita commissione di investigare le cause di tanti delitti e i mezzi per prevenirli. Nel frattempo, la ministra per la Famiglia e gli Affari Sociali, Fatma Şahin, ha annunciato che presto verrà introdotto il bracciale elettronico per controllare gli uomini già denunciati per abusi domestici o comunque ritenuti pericolosi per le compagne.

La violenza domestica è una piaga in Turchia, reiteratamente denunciata, tra gli altri, da tutte le organizzazioni femminili e da quelle per la difesa dei diritti umani. Recentemente, due casi hanno destato particolare scalpore: quello di una donna uccisa dal marito, ripetutamente denunciato, ma contro il quale il tribunale aveva rifiutato di emettere una ordinanza restrittiva; e quella di una giovane tenuta prigioniera per quattro giorni dall’ ex fidanzato che l’ha torturata fino ad ucciderla.

Le organizzazioni femminili lamentano come vi sia poco coordinamento tra forze dell’ordine, tribunali e municipalità: queste ultime, infatti, dovrebbero provvedere a fornire case accoglienza per le donne a rischio, ma molto spesso questa è una voce assai trascurata nel bilancio dei comuni. Così vi sono donne che non osano più uscire di casa, di fatto autocondannandosi ad una specie di galera forzata, mentre i loro persecutori girano a piede libero.

Qualche tempo fa, un politico “islamista” aveva tentato di individuare le cause di tanta violenza contro le donne nella eccessiva “promiscuità” nell’abbigliamento e nell’atteggiamento adottata da queste negli ambienti pubblici. Tale grossolana analisi cozza, tra l’altro, con l’indagine recentemente effettuata a cura della maggiore organizzazione per i diritti umani turca, la Mazlum Der, secondo la quale oltre il 60% delle turche indossa il velo. E moltissime donne che subiscono violenza sono, comunque, donne che girano velate. In questo rispetto, anzi, le donne velate sarebbero doppiamente colpite: non solo il velo non le risparmia dagli abusi domestici, esse sono anche discriminate nella sfera pubblica turca. Sempre secondo l’indagine di Mazlum Der, infatti, le donne col velo hanno scarso accesso all’università pubblica, vengono scartate nei colloqui di lavoro, non possono godere delle facilitazioni messe a disposizione al resto della popolazione da parte delle autorità militari (ospedali, scuole ecc.); perfino nelle liste dei partiti religiosi le donne col velo non sono ben posizionate, venendo così penalizzate nella corsa al parlamento.

Velate o no, comunque, le donne in Turchia debbono fronteggiare numerose difficoltà, dai maltrattamenti domestici allo sbarramento nel mondo del lavoro, dove solo il 22% di loro, infatti, è impiegata.

Tutto ciò si pone come un’ennesima sfida per il partito al governo, che conta su un consistente appoggio proprio dalle donne più “tradizionaliste”, ovvero velate. Queste ora sono sul sentiero di guerra, reclamando le promesse elettorali di sicurezza e completa cittadinanza. Ma pure le “laiche”, da sempre impegnate contro la stretta patriarcale, chiedono a Erdoĝan e ai suoi, di mantenere l’impegno di essere il premier di tutti/e. E tutte attendono risultati positivi nella lotta contro la violenza domestica, che potrebbe rivelarsi quale primo grande test di politica interna per questo nuovo mandato di Erdoĝan.

 

 

 

 

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Nei primi cinque mesi di quest’anno in Turchia sono morte cento donne a causa di violenze domestiche, quasi una al giorno, una media impressionante che ha convinto il presidente Gül di incaricare un’apposita commissione di investigare le cause di tanti delitti e i mezzi per prevenirli. Nel frattempo, la ministra per la Famiglia e gli Affari Sociali, Fatma Şahin, ha annunciato che presto verrà introdotto il bracciale elettronico per controllare gli uomini già denunciati per abusi domestici o comunque ritenuti pericolosi per le compagne.

La violenza domestica è una piaga in Turchia, reiteratamente denunciata, tra gli altri, da tutte le organizzazioni femminili e da quelle per la difesa dei diritti umani. Recentemente, due casi hanno destato particolare scalpore: quello di una donna uccisa dal marito, ripetutamente denunciato, ma contro il quale il tribunale aveva rifiutato di emettere una ordinanza restrittiva; e quella di una giovane tenuta prigioniera per quattro giorni dall’ ex fidanzato che l’ha torturata fino ad ucciderla.

Le organizzazioni femminili lamentano come vi sia poco coordinamento tra forze dell’ordine, tribunali e municipalità: queste ultime, infatti, dovrebbero provvedere a fornire case accoglienza per le donne a rischio, ma molto spesso questa è una voce assai trascurata nel bilancio dei comuni. Così vi sono donne che non osano più uscire di casa, di fatto autocondannandosi ad una specie di galera forzata, mentre i loro persecutori girano a piede libero.

Qualche tempo fa, un politico “islamista” aveva tentato di individuare le cause di tanta violenza contro le donne nella eccessiva “promiscuità” nell’abbigliamento e nell’atteggiamento adottata da queste negli ambienti pubblici. Tale grossolana analisi cozza, tra l’altro, con l’indagine recentemente effettuata a cura della maggiore organizzazione per i diritti umani turca, la Mazlum Der, secondo la quale oltre il 60% delle turche indossa il velo. E moltissime donne che subiscono violenza sono, comunque, donne che girano velate. In questo rispetto, anzi, le donne velate sarebbero doppiamente colpite: non solo il velo non le risparmia dagli abusi domestici, esse sono anche discriminate nella sfera pubblica turca. Sempre secondo l’indagine di Mazlum Der, infatti, le donne col velo hanno scarso accesso all’università pubblica, vengono scartate nei colloqui di lavoro, non possono godere delle facilitazioni messe a disposizione al resto della popolazione da parte delle autorità militari (ospedali, scuole ecc.); perfino nelle liste dei partiti religiosi le donne col velo non sono ben posizionate, venendo così penalizzate nella corsa al parlamento.

Velate o no, comunque, le donne in Turchia debbono fronteggiare numerose difficoltà, dai maltrattamenti domestici allo sbarramento nel mondo del lavoro, dove solo il 22% di loro, infatti, è impiegata.

Tutto ciò si pone come un’ennesima sfida per il partito al governo, che conta su un consistente appoggio proprio dalle donne più “tradizionaliste”, ovvero velate. Queste ora sono sul sentiero di guerra, reclamando le promesse elettorali di sicurezza e completa cittadinanza. Ma pure le “laiche”, da sempre impegnate contro la stretta patriarcale, chiedono a Erdoĝan e ai suoi, di mantenere l’impegno di essere il premier di tutti/e. E tutte attendono risultati positivi nella lotta contro la violenza domestica, che potrebbe rivelarsi quale primo grande test di politica interna per questo nuovo mandato di Erdoĝan.

Articolo pubblicato il 26/7/2011 dal Giornale di Brescia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Adunis: un Orientalista in odor di Nobel

Il controverso poeta libano-siriano Adunis (1930) è da molto in odor di premio Nobel, e, considerata la sua età e il rinnovato interesse internazionale per il mondo arabo, è facile che ci arrivi. Non so però se si tratti di una vittoria per la cultura araba contemporanea, vista la deriva “orientalista” che il poeta ha ormai assunto nelle ultime decadi…per saperne di più, ecco un interessate articolo sul sito di al-Jazira:

http://english.aljazeera.net/indepth/opinion/2011/07/201179124452158992.html

Donne in Italia:

L’Italia esce a pezzi dal rapporto Ocse sulla famiglia, sia per tasso di occupazione femminile (al 59,1% contro la media Ocse del 70,9%: la più bassa dopo Turchia, Messico e Cile), che per natalità (1,4 figli per donna rispetto alla media di 1,74) e per la percentuale di povertà infantile (al 15,3% contro la media del 12,7%). È la Francia a rivelarsi, invece, il modello di riferimento: occupazione femminile al 76,6%, 1,99 figli per donna e povertà infantile all’8%.
L’Italia è uno dei Paesi Ocse in cui si spende meno per le politiche familiari: solo l’1,4% del Pil, mentre la media si attesta al 2,2% (per la Francia 3,8%).

Sono, a dir poco, dati inquietanti per noi donne d’Italia

Bufale di pace

L’amico blogger Miguel Martinez (http://kelebeklerblog.com) ha riportato sul suo sito una notizia incredibile: a fine maggio in quel di Mazara del Vallo si è svolta una grottesca manifestazione intitolata “Quali nuovi strumenti per la Pace oggi” , con protagonisti una serie di nostri parlamentari che hanno fatto da cornice alla star dell’evento, ovvero quel personaggio di dubbia reputazione che è Prem Rawat. Il sedicente guru da decadi abbindola gonzi di ogni Paese proclamandosi dio in terra ed altre baggianate, predicando povertà ed astinenze d’ogni genere ai proprio accoliti mentre lui conduce una vita da sibarita (provare a vedere la foto della sua villona californiana: http://www.prem-rawat-bio.org/mansion.html). Ora, si dirà che  di questi personaggi è pieno il mondo, ma è veramente incredibile che si siano mossi ad organizzare un mega evento in Sicilia, con tanto di patrocinio dalla Presidenza della Repubblica e la partecipazione di parlamentari ed accademici nostrani, ad un furbacchione che dice una serie di banalità arricchendosi alle spalle altrui.

Certo Prem Rawat si sa vender bene, ma chi lo compera (o si fa comperare) da noi?