Rouhani’s “American Boys”

Rohani-first-cabinet-session-1Strano paese l’Iran, dopo che i suoi capi hanno trascorso oltre 30 anni a gridare “morte all’America” si ritrova un governo i cui ministri hanno un dottorato conseguito negli Stati Uniti, o in Europa. Javad Zarif, ad esempio, Ministro degli Esteri, ha conseguito il suo dottorato a Denver; Akbar Salehi, negoziatore per il nucleare, ha ottenuto il suo PhD in ingegneria nuclear al MIT; Mohammad Vaezi, Ministro delle Comunicazioni, ha un dottorato conseguito all’Università di Varsavia, ma ha studiato prima in vari atenei americani; Ali Akhoundi, Ministro dei Trasporti, ha ottenuto il suo PhD a Londra.

Lo stesso Rouhani ha un dottorato ottenuto all’Università di Glasgow, dove ha studiato e si è dottorata (in diritto internazionale) pure Elham Amimzadeh, una dei vice Presidenti iraniani. Lo staff del Presidente è diretto da Mohammad Nahvandian, PhD in economia presso la Geroge Washington University, negli Stati Uniti…

Chissà se anche i consiglieri di Obama hanno una formazione internazionale. Ah no, non ne hanno bisogno, infatti si vede dai risultati della politica estera americana in queste decadi….

Iran, 35 anni di Rivoluzione

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La Repubblica Islamica d’Iran festeggia in questi giorni il suo 35° anniversario di vita. Quello che era diventato un rituale che si ripeteva stancamente e non senza contestazioni nel mese di febbraio di ogni anno, quest’anno sta assumendo un aspetto diverso, in quanto l’Iran si è scrollato di dosso il ruolo di paria del mondo ricoperto per decadi, e gli iraniani ricominciano a sperare. Il Presidente Rouhani è apparso in questi giorni in televisione, elencando soddisfatto una serie di successi riportati nel breve periodo del suo mandato (circa sei mesi), quali l’accordo sul nucleare di Ginevra, la serie di visite da parte di alte cariche di stati stranieri (inclusa l’Italia) e la lunga teoria di aziende e enti internazionali pronti a riprendere gli scambi commerciali e imprenditoriali con Tehran, dopo un blocco durato anni causa delle sanzioni lanciate contro l’Iran proprio a causa del suo contestatissimo programma nucleare. Ciò che è stato apprezzato nel discorso del Presidente non sono solo i suoi successi e il suo atteggiamento di dialogo con i cittadini, ma anche il fatto che egli non ha negato l’elenco dei problemi gravissimi che il Paese deve affrontare, quali la disoccupazione, l’inflazione, il tasso d’inquinamento assai critico soprattutto nella capitale, nonché la cronica carenza di benzina e di combustibile, un paradosso in una nazione che dispone di ingenti risorse del sottosuolo. L’economia iraniana rimane estremamente vulnerabile, a causa della sua dipendenza dal petrolio, fattore che rappresenta forse il maggiore fallimento di questi 35 anni di politica, non avendo saputo adeguare le infrastrutture petrolifere.

Rouhani ha chiesto agli iraniani di avere pazienza. E che i problemi non saranno di soluzione immediata è stato sottolineato dal fatto che la trasmissione televisiva è stata ritardata rispetto a quanto programmato (ovvero, boicottata), particolare che il Presidente ha menzionato varie volte nel suo discorso, senza esplicitarne i motivi, ma facendo così capire che i nemici del suo operato sono, in primis, domestici. Il responsabile ultimo della televisione di stato è la Guida Suprema, Khamenei, il quale, vuoi perché il Presidente gli sta rubando la scena, vuoi perché egli è comunque espressione e rappresentante dei falchi locali, potrebbe aver fatto in questo modo intendere il proprio dissenso nei confronti dell’opera di Rouhani. Quest’ultimo, invece, legato alle principali figure moderate del Paese, tanto laiche quanto religiose, sembra ignorare la sfida postagli dai conservatori, contando piuttosto sul supporto della popolazione. Paradossalmente, la Repubblica Islamica ha creato una società “laica” in cui la religione è soprattutto una questione personale, una società giovane che contesta gli ideali rivoluzionari di un tempo, altamente istruita, urbanizzata e tecnologizzata, in cui le donne rappresentano un segmento cruciale, assai diversa da quella di 35 anni fa. Questa società mal sopporta tanto le costrizioni liberticide interne, quanto di essere il bersaglio della “iranofobia” che continua ad essere alimentata soprattutto dai falchi statunitensi; e intravede in Rouhani il leader in grado di traghettare il Paese fuori dall’impasse.

da Giornale di Brescia 10/2/2014

Finanziamenti dal Golfo, cultura, diritti umani, islam e “noi”

qatar-3La notizia che l’emiro del Qatar sarebbe pronto a finanziare l’apertura di un museo di arte islamica a Venezia ha provocato sconcerto, soprattutto in seno a partiti non favorevoli al mondo musulmano in generale, i cui esponenti ravvedono, alla base dell’impresa, non tanto un progetto culturale, quanto un disegno per allargare l’influenza dell’islam in Italia, mascherando questa espansione in abiti artistici. Insomma, il museo costituirebbe, secondo tale visione, una sorta di novello cavallo di Troia che porterebbe l’islam ufficialmente nel cuore del nostro Paese. Altre voci, non solo di politici, accolgono favorevolmente il piano, sottolineando come altre nazioni europee (quali la Francia) abbiano già intrapreso progetti di joint venture artistiche con i paesi del Golfo e come Venezia, con il suo passato di ponte verso il mondo ottomano, ben si presti a divenire la sede per tale opera.

            Al di là delle considerazioni puramente culturali, è ovvio che si tratti di un’operazione politico-economica, i cui protagonisti hanno intenti ben precisi: noi, di avere finanziamenti e rapporti privilegiati con il ricco paese arabo; il Qatar – o, meglio, la sua dirigenza – di avere a disposizione un’ennesima vetrina dove accreditarsi internazionalmente, facendo dimenticare (per chi volesse farlo) i numerosi abusi di diritti umani perpetuati all’interno dei patri confini.

            Certo in questa machiavellica operazione in cui da un lato ci facciamo promotori dei diritti umani internazionali, dall’altro ignoriamo i soprusi compiuti da governi amici (ovvero quelli con cui intratteniamo rapporti economici) non siamo i soli; sotto l’insegna di pecunia non olet, la FIFA ha chiuso gli occhi sugli incredibili prevaricazioni compiute nei riguardi dei lavoratori già da parecchi mesi impiegati (o, meglio, schiavizzati) nelle faraoniche costruzioni destinate a ospitare i mondiali di calcio che si svolgeranno in Qatar nel 2022. Solo recentemente, dopo che, tra gli altri, l’autorevole The Guardian si è lanciato in una campagna di denuncia delle terribili condizioni in cui sono tenuti gli operai provenienti perlopiù dal sud est asiatico che stanno lavorando alle strutture calcistiche qatariane, la FIFA ha richiesto a Doha di dare tangibili prove del miglioramento delle condizioni dei lavoratori migrati. Che la situazione sia particolarmente grave è testimoniato dal fatto che la stessa dirigenza di Doha ha ammesso la morte di 185 operai avvenuta nel 2013 solo nella comunità nepalese; di questo passo, si potrebbe arrivare alle porte dell’evento 2022 collezionando parecchie miglia di vittime del lavoro. Le morti sono causate soprattutto dalle pessime condizioni igienico sanitarie degli alloggiamenti dei lavoratori, veri alveari dal sistema fognario e sanitario pessimi. Gli operai sono costretti a lavorare con turni massacranti, in ambienti spesso caldissimi; ironia della sorte, questi uomini costruiscono stadi avveniristici dove le torride temperature dell’estate 2022 dovrebbero essere mitigate da climatizzatori, lavorando privi di qualsiasi sistema di ventilazione con temperature impossibili.

            Qatar, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo stanno progressivamente comperando istituzioni e imprese nei paesi europei, ospitando, nel contempo, istituzioni e imprese europee nei loro territori, seguendo il basilare principio secondo il quale gli arabi pagano e gli europei si fanno comperare. In questo gioco di mercato, l’islam non c’entra, c’entrano solo la “loro” voglia di egemonia e la “nostra” cupidigia.

 da Giornale di Brescia 7/2/2013